
L’inviato di Tempi tra i soldati peshmerga che combattono sul fronte «l’organizzazione diabolica» jihadista

FOTO E REPORTAGE DA MAKHMOUR (IRAQ). DAL NOSTRO INVIATO (qui i tre precedenti articoli) – Stiamo fra la garitta di cemento rinforzata con sacchi di sabbia e il blindato con la portiera aperta rivolto verso di noi, ma ogni tanto il soldato si gira su se stesso, si sporge e butta l’occhio là lontano, verso una fila di alberi lontana un chilometro circa in linea d’aria. Accanto c’è un edificio basso, e sembrerebbe anche un veicolo. È la prima linea di Daesh fuori da Makhmour, una località 30 chilometri a sud-ovest di Erbil che i jihadisti e le forze curde si contendono aspramente dall’inizio di quest’anno. Il 7 agosto gli uomini di al-Baghdadi erano riusciti a costringere alla ritirata le forze curde, e a prendere il controllo completo della località, capoluogo di un distretto che conta 28 mila abitanti, più 11 mila curdi di Turchia profughi dagli anni Ottanta (!) sistemati in un campo per rifugiati da ben 34 anni. Tutti furono evacuati per tempo e non ci furono perdite di vite umane, ma per tre giorni Daesh impazzò per le vie, le case e gli uffici della città, e mise a soqquadro il campo profughi, rubando le granaglie dei silos di una grande ditta e 20 mila dollari dalla cassaforte dell’amministrazione del campo profughi. Il 10 agosto i peshmerga iracheni, grazie all’apporto decisivo dei combattenti curdi siriani del Pyd, il principale partito armato curdo di Siria, sono riusciti a riprendere completamente il territorio, spingendo via quelli del Daesh. Che però si sono accampati poco fuori dal margine occidentale della località, e da lì lanciano attacchi sporadici con mortai, cecchini e piccole incursioni.
«Tre giorni fa ci hanno sparato contro due colpi di mortaio che sono caduti là», dice indicando un punto lontano alla nostra sinistra. «Ma l’hanno pagata cara. Due notti fa gli americani hanno bombardato il villaggio di Makhouk nel settore di Hadj Ali e hanno fatto un sacco di morti, per l’esattezza 84. E stamattina alle 5 li hanno colpiti ancora, proprio qui davanti a noi!». Il soldato Ali, chiamiamolo così, ha più di una ragione per essere su di giri. Lui era dentro al blindato che per primo è entrato in Makhmour per riconquistarla, e che adesso sta qui a fare da riparo a loro e a noi. Metà parabrezza antiproietille mostra un grande effetto ragnatela a causa di un colpo di mitragliatrice pesante che l’ha centrato, l’altra metà è decorata da una rosa di impatti di calibri più piccoli. Altri danni si notano qua e là sulla corazzatura. Nessuno dentro è rimasto ferito, ma immaginate l’adrenalina.
Il contrattacco curdo-americano è evidentemente in pieno sviluppo: la diga di Mosul, che i peshmerga stanno riconquistando metro dopo metro dopo i bombardamenti notturni della Us air force mentre noi siamo qui a parlare, dista da Makhmour quasi 200 chilometri. L’arco di fronte su cui si sviluppa la controffensiva è sempre più ampio. I peshmerga del Governo regionale curdo (Krg) dell’Iraq possono contare non solo sul supporto aereo americano, ma sull’afflusso dei loro fratelli in armi da Siria, Turchia e Iran. Ali ha un ricordo particolare della riconquista di Makhmour. «Sopra un auto che fuggiva a tutta velocità abbiamo notato due donne sul sedile posteriore. Siamo entrati nell’edificio dal quale era uscita, e abbiamo trovato due bambine yazide. Erano le figlie delle due donne intraviste nell’auto, due delle tante donne yazide rapite la settimana scorsa e distribuite come bottino ai combattenti. In una stanza abbiamo trovato indumenti intimi femminili abbandonati…». Il crudele destino delle donne yazide rapite a centinaia a Singar e nei villaggi vicini è oggetto degli sforzi di persone di buona volontà. Lalash, che è la principale associazione culturale yazida dell’Iraq, ha organizzato il riscatto sistematico delle vittime del ratto: invia nei territori sotto il controllo del Daesh degli arabi sunniti fidati e coraggiosi ai quali fornisce il denaro per riacquistare la libertà delle donne rapite. L’operazione è in pieno svolgimento, e qualche sfortunata ha già fatto ritorno alla famiglia d’origine.
Cerchiamo di capire da cosa dipenda l’alto numero di vittime del raid americano in questo settore, del quale sui giornali non si parla. Interviene il nostro traduttore: «Il fatto è che gli armati del Daesh trovano molti sostenitori nei villaggi arabi sunniti che attraversano. Non si tratta di fanatici o di gente politicizzata, ma di soggetti desiderosi di partecipare ai saccheggi dei villaggi dei loro vicini curdi, cristiani, yazidi. Così le file di Daesh si ingrossano in un batter d’occhio. Dice il soldato che degli 84 caduti che hanno contato solo 24 erano effettivi del Daesh, gli altri erano abitanti dei villaggi dei dintorni che si erano uniti ai jihadisti da poco tempo». Questa dinamica dei fatti, che abbiamo sentito ripetere per esempio anche dai profughi yazidi incontrati a Zakho, potrebbe aiutare a trovare una risposta alla domanda che, a distanza di settimane, ci si continua a porre: perché, con tante possibili direzioni di sviluppo della propria offensiva, lo Stato islamico ha deciso di attaccare le regioni abitate da cristiani, yazidi e curdi? Perché non ha cercato piuttosto di espandersi nelle aree arabe e sunnite, o di mettere l’assedio a Baghdad? La risposta potrebbe essere che Daesh ha lanciato le sue operazioni contro aree dove le popolazioni arabe sunnite confinano con villaggi di iracheni di altra religione o etnia, per allettare gli arabi sunniti con la prospettiva di grandi saccheggi. Purtroppo la brama di ricchezza e la tradizione storica della razzia (che è parola araba, come tutti dovrebbero sapere) sono molto radicate da queste parti, e se ci sono arabi sunniti disposti a rischiare il collo per riportare alle loro famiglie donne yazide, ce ne sono anche tanti pronti a unirsi ai peggiori terroristi per arricchirsi con poca fatica. Tutto questo pone un grave problema: anche se si riuscirà a porre fine alla crisi e cacciare definitivamente i fautori del Califfato dall’Iraq, i rapporti fra villaggi di etnia e religione diversa resteranno rovinati per molti anni. Già ora si segnalano esodi di arabi sunniti timorosi della vendetta di curdi e yazidi di ritorno nei loro villaggi saccheggiati, e dichiarazioni di yazidi che vogliono espatriare per non dover tornare ad abitare fianco a fianco con vicini di cui non si fidano più. Ricucire la tela dell’Iraq multietnico e multi religioso sarà molto difficile.
L’inviato di Tempi Rodolfo Casadei (al centro) con Domenico Quirico (la Stampa) e due soldati peshmergaNella città di Makhmour la vita torna alla normalità molto lentamente, a causa della persistente insicurezza. «Finora sono rientrate 400 famiglie», spiega il governatore Mohamed Sheikh Allah. «Abbiamo già riportato l’elettricità in tutte le case, mentre l’acqua è distribuita quotidianamente coi tank. Oggi stiamo ripulendo le vie da rifiuti e residui di ogni genere, e domani estenderemo l’operazione a tutto il distretto. Sono incoraggiato da questa grande unanimità internazionale contro Daesh: dagli Stati Uniti all’Iran, dall’Europa alla Turchia, tutti sembrano d’accordo che questa organizzazione diabolica deve essere distrutta».
Scattiamo foto e giriamo filmati con Ali e il suo compagno alla postazione dei peshmerga lì sul fronte, cercando di non dare profilo ai cecchini che dall’altra parte sicuramente si stanno mobilitando. Salutiamo con rispetto questi uomini dalla pelle di bronzo, che si battono per il futuro di tutti e non solo dei curdi come loro. Senza saperlo. Ma noialtri non possiamo far finta di non saperlo.
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