
Messori: «Tutta la mia vita tra fede e ragione»

Articolo tratto dal numero di febbraio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Vittorio Messori è conosciuto in tutto il mondo per essere un giornalista e scrittore cattolico di successo; ma soprattutto per essere colui che, dopo la conversione, da laico, ha indagato sui fondamenti del cattolicesimo ridando lustro a quell’antica disciplina dal nome apparentemente ostico che è l’apologetica.
Messori, come e perché è diventato un apologeta?
Non fu una scelta, fu una necessità. Il fatto è che mi scopersi cristiano, addirittura cattolico, in modo imprevisto, avendo alle spalle una famiglia emiliana di mangiapreti e scuole torinesi del tutto agnostiche se non decisamente anticlericali. I miei maestri universitari ci ripetevano che le pretese di verità della Chiesa erano basate su miti, leggende, equivoci, magari falsità e imbrogli. La mia prima necessità, dunque, fu indagare se era possibile essere al contempo razionale e credente, se c’era un nesso tra fede e ragione. Mi misi al lavoro e il risultato sono ventiquattro libri che in fondo cercano tutti, seppur da prospettive diverse, di rispondere alla domanda: “È vero o non è vero? Realtà o illusione?”. L’apologetica per me non fu dunque una scelta, ma una necessità.
Lei ha intervistato per un altro suo libro, Indagine sul cristianesimo, don Luigi Giussani. Rispondendo alla domanda sul perché di tanta avversione all’epoca (1985) nei confronti di Cl sia fuori sia dentro la Chiesa, don Giussani disse: «Molti cattolici italiani sono clericali nello stile e laicisti nella cultura; noi siamo (o cerchiamo di essere) il contrario: religiosi sul piano culturale, laici nello stile». Risiede anche qui il segreto del successo di un libro come Ipotesi su Gesù, da poco rieditato? Nel fatto cioè di essere un libro religioso nei contenuti ma assolutamente rigoroso e laico nel metodo?
Don Giussani mi telefonò, a sorpresa, alla Stampa, a Torino, dove mi occupavo di Tuttolibri, l’inserto culturale. Voleva conoscermi e mi diede appuntamento in un ristorante di Milano. A tavola eravamo noi due soltanto. Aveva letto il mio primo libro, quelle Ipotesi su Gesù che in questi mesi è stato da me rivisto e pubblicato dall’Ares, non più dalla Sei che è passata ai soli testi scolastici. Senza giri ruffiani di parole mi propose chiaro-chiaro di entrare a far parte della sua, ancor giovanissima, Comunione e liberazione. Un caso di scandaloso proselitismo, avrebbe detto qualcuno! Io, invece, mi sentii onorato e gli dissi, in piena sincerità, che consideravo provvidenziale il gruppo crescente attorno a lui e che, per quanto potevo, denunciavo sui giornali – la laicista Stampa compresa – quante leggende nere si fossero formate attorno a lui e ai suoi giovani. Ma gli dissi anche che la mia vocazione era quella del cecchino solitario, del credente con la vocazione del pensatore e scrittore appartato. Ero un “libero cattolico”: e tale sono rimasto sino ad ora e tale rimarrò sino alla fine. Sì, come lei dice, nelle mie Ipotesi trovò una prospettiva che coincideva con la sua e non solo in quel libro: facevo allora su Avvenire una rubrica, “Vivaio”, e spesso mi telefonava per rallegrarsi. Nei ciellini, in effetti, ho sempre trovato una comprensione e un affetto che mi colpiva soprattutto quando andavo al Meeting per presentare un mio nuovo libro.

Visto che ne ha fatto cenno, il leit-motiv oggi in vigore in ambito clericale corrisponde alla seguente affermazione: evangelizzazione sì, proselitismo no. Che ne pensa?
Proselitismo alla maniera sanguinaria dei musulmani o offrendo soldi e privilegi a chi accetta il battesimo? Tra i cattolici non mi risulta nulla di questo. È sconcertate questo leit-motiv: si ha l’impressione che dietro la parola “proselitismo” si voglia nascondere quella, ordinata da Gesù stesso, che significa “apostolato”. Dunque, basta con le missioni e tanti saluti agli innumerevoli eroi che, in duemila anni (ma anche ora), sono morti per annunciare il Vangelo.
È preoccupato per la crisi delle vocazioni?
Per dirla crudamente: sapendo come funzionano e cosa insegnano buona parte dei seminari, ogni prete in più è un problema, se non un pericolo, in più… Se i preti facessero solo le cose che solamente loro possono fare – l’amministrazione dei sacramenti e l’annuncio del Vangelo – non ne occorrerebbero molti. Al resto potremmo (e dovremmo) pensare noi laici.
In un recente saggio sul sacerdozio cattolico Benedetto XVI ha difeso il celibato dicendo che «la chiamata a seguire Gesù non è possibile senza questo segno di libertà e di rinuncia a qualsiasi compromesso». Un monito piuttosto chiaro alla luce di quanto sta accadendo nella Chiesa su questo tema, che ne pensa?
La mia prima reazione è stata: meno male che Benedetto XVI non si è chiuso in un lontano monastero (come io e molti consideravano certo e auspicabile), troncando ogni rapporto col mondo, totalmente immerso nella preghiera e nella meditazione sui testi sacri! Colpisce la fermezza, pur nella consueta buona educazione, con cui il Papa emerito esclude ogni intervento sul celibato sacerdotale, ammonendo severamente che questo è una delle colonne su cui si regge la Chiesa. Ma, ancora una volta, colpisce l’acquiescenza, che direi pavido conformismo, di cardinali e vescovi: la proposta di consacrare i cosiddetti viri probati (prospettiva respinta da Ratzinger con una decisione che non accetta discussione) è stata approvata al Sinodo con la maggioranza assoluta dei voti, con solo alcune flebili espressioni di perplessità. Molto tempo fa ho respinto la proposta dei miei direttori di giornale del tempo di restare a Milano o, meglio ancora, di trasferirmi a Roma. Io volevo continuare in pace la mia ricerca e, dunque, scelsi invece di andare a vivere in una cittadina sul Garda. Malgrado l’isolamento, mi capita spesso di avere contatti con preti, frati e anche qualche vescovo. Le assicuro che non incontro alcuno che non si lamenti, preoccupato, della situazione attuale della Chiesa. Ma le assicuro anche che nessuno di loro dice pubblicamente quanto ha detto a me in via confidenziale. Se poi sono chiamati a un Sinodo, eccoli votare in massa, senza esprimere alcuna perplessità, su tutto ciò che è proposto, compresi i notabili dell’Amazzonia, carichi di figli e boss delle loro comunità, consacrati per celebrare la Messa e amministrare i sacramenti. Ma oltre a questo, c’è anche un altro aspetto da considerare quando si parla di celibato.
Quale?
Sembra che gran parte dei sacerdoti abbia gusti omosessuali: che se ne farebbero di una moglie? O si decide di lasciargli sposare un uomo, come fanno i protestanti che, non a caso, anche per questo, vanno verso l’estinzione?
A proposito di omosessualità, ha l’impressione che nella Chiesa ci sia il tentativo di sdoganarla?
Da sempre gli omosessuali sono attratti da Chiesa, navi, forze armate, pompieri e cantieri edilizi, essendo tutte realtà anche oggi con grandissima percentuale maschile. Ogni vescovo cattolico lo sapeva e vigilava, pronto a dimettere l’aspirante al seminario che si fosse rivelato gay, magari dopo aver superato il primo esame per accertarne le tendenze. Poi venne il Concilio, e con esso anche nella Chiesa entrò il virus autoritario e grottesco del “politicamente corretto”. Dunque, niente discriminazioni, porte aperte a tutti, respingere chiunque era un comportamento da “fascista”. Soprattutto in paesi come la Germania o l’Inghilterra o anche gli Stati Uniti le gerarchie cattoliche si vergognarono di non adeguarsi alla maggioranza protestante dove i gay erano e sono accolti come privilegiati e diventano persino vescovi magari “sposati” con l’uomo di cui sono innamorati. Senza arrivare (almeno per ora) a questi estremi, la presenza omosessuale si è molto allargata anche tra il clero cattolico. Arrivare persino a “sdoganarla” pubblicamente e ufficialmente, come mi chiede, mi sembra difficile, visto che ci sono di mezzo sia l’Antico che il Nuovo Testamento con le loro indiscutibili e severe condanne. Si è però ricorsi a un trucco che molti cattolici, ingenuamente, non hanno avvertito. Si è organizzato un intero sinodo mondiale sulla sodomia nella Chiesa ma si è riusciti a non fare mai, dico mai, la parola “omosessuali” e “omosessualità”. Il sinodo era rigorosamente ristretto alla pedofilia, la violazione sessuale dei bambini. Ma questa è una perversione piuttosto rara, come rari sono i bambini soli in sacrestia o all’oratorio. Stando alle tristi statistiche, più dell’80 per cento dei violentati o almeno molestati era ed è composto non da bambini ma da adolescenti, da ragazzi, da giovani. Insomma, non pedofilia, ma “normale” pederastia omosessuale. Ma questo non si doveva dire, per non trascinare nella condanna i signori omosessuali, così numerosi e potenti.
Lei e sua moglie Rosanna avete dovuto attendere venti anni per l’annullamento del suo primo matrimonio. Venti anni in cui avete obbedito alla Chiesa vivendo come fratello e sorella. Fosse successo oggi avreste avuto vita più facile. Rimpianti?
Tutto è provvidenza, se è andata così, così doveva andare. Ho inquadrato e posato sulla scrivania le parole di Dante tanto rasserenanti: «Et in sua Voluntade è nostra pace». Né Rosanna né io abbiamo rancori né amarezze: un’attesa così lunga in fondo ha purificato e rafforzato in modo straordinario la radice del nostro amarci.
Lei ha cessato tutte le collaborazioni giornalistiche e le sue uscite pubbliche sono sempre più rare. È perché ritiene di aver detto tutto ciò che aveva da dire? O c’è dell’altro?
Da molti anni ho un contratto di collaborazione col Corriere della Sera. Il quale aspetta da me che scriva di cose religiose. Ma dopo quanto accaduto e accade nella Chiesa, il rapporto si è molto infievolito. Alla Rai, poi, ero un habitué di “Porta a Porta”: ma anche qui ho, volontariamente, dato un taglio. Un po’ perché qui pure avrei incontrato difficoltà e magari faticosi scontri con altri invitati; un po’ perché quella trasmissione, alla mia età, è faticosa tra aerei, taxi, ore su quelle scomode poltroncine bianche di plastica, ascoltando magari sciocchezze cui non puoi reagire, trattorie, notti in albergo. Infine, per gli amici del Timone e della Bussola ho scritto molto, sin dagli inizi, dunque i lettori sanno bene che cosa penso, è ora di una pausa, anche perché ci sono ottimi vaticanisti che seguono con coraggio e competenza quanto succede nella Chiesa. Di me non c’è più bisogno. Ma poi, per il mio silenzio “pubblico” c’è un motivo che supera tutti gli altri.
Cioè?
Beh, stia a sentire… Stando alle statistiche – e chissà se mi sarà dato di rispettarle – e stando al Salmo 90 (che fissa come raro e ultimo traguardo gli ottant’anni) la mia attesa di vita, a 78 anni, è ben poca cosa. Prima di congedarmi e di passare a miglior vita (e spero di meritare che, anche per me, sia davvero migliore) vorrei tentare di terminare un paio di libri, già iniziati, che ho promesso ai lettori. Non solo: ci sono ancora quei miei volumi che erano nel soppresso catalogo della Sei e che devo rivedere per la ristampa, visto che questi pure sono ancora richiesti. Insomma, per ridirla con la Bibbia, per me il tempo si è fatto breve. Non me la sento di impiegarlo a pedinare, io vecchio, un vecchio Papa. Penso soprattutto – con doveroso timore e con speranzosa gioia – alla vita eterna ormai prossima. Non ho più tempo né voglia di sostenere polemiche e aggressioni, come mi successe quando, sul Corriere, espressi, con ogni rispetto e pacatezza, non critiche ma alcune perplessità. Insulti e minacce vennero spesso da chi il mio articolo non l’aveva neanche letto. Si creò addirittura un comitato che pretendeva che il Corriere mi annullasse il contratto di collaborazione. Insomma: preferisco impiegare il tempo per un rosario ad bonam mortem petendam piuttosto che scrivere un articolo o partecipare a un dibattito.
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