
Perché gli inglesi sono così bravi e ordinati a fare la coda

Fino a ventiquattro ore di attesa per sfilare davanti al catafalco con il feretro di Elisabetta II, dieci chilometri di coda tra la Westminster Hall del complesso del Parlamento e il parco di Southwark, sulla riva sud del Tamigi, dalla parte “sbagliata” del fiume, quella sud, passando accanto al Lambeth Palace, residenza dell’arcivescovo di Canterbury, seconda massima autorità della chiesa anglicana dopo la Regina (o il Re) stessa. Ventiquattro ore di quella che ormai è The Queue, La Coda per antonomasia, attesa – con apprensione – da decenni da molti britannici.
La pazienza e lo sforzo di chi sta in coda
Una coda che è presto diventata un’esperienza spirituale, una parentesi esistenziale, un cuscino ricamato nel passato: nell’era in cui puoi saltare qualsiasi fila se ti iscrivi con la app o se paghi con la carta di credito dello sponsor, qui l‘attesa la devi fare come ai vecchi tempi, se ovviamente non sei un nobile o un’autorità per cui certe formalità non esistono, anche se ha suscitato ammirazione il David Beckham che ha deciso di partire da Southwark Park come un comune cittadino, nonostante la carica onorifica ricevuta dalla Regina stessa nel 2003 e l’invito vip di un parlamentare, in omaggio al nonno «che di sicuro non avrebbe saltato la fila».
La pazienza e lo sforzo sono diventate un’esperienza in sé, il cui culmine, nel rispettoso omaggio alla Regina, un inchino, uno sguardo, un segno della croce, rappresenta solo la tappa finale, anche se la più emotiva: un ritorno al passato, una parentesi in cui il tempo non è più un nemico da sconfiggere o comprimere ma un compagno di viaggio, un collega di riflessione. È una fila che si muove di continuo, quindi infligge meno ansia ma richiede più pazienza, perché non puoi neanche metterti a leggere o guardare troppo il cellulare, sempre che tu abbia le batterie supplementari per tenerlo acceso, e comunque la foto nella Hall non la puoi fare.
Una confortante manifestazione di britannicità
Vista con gli occhi del mondo, con le sue particolarità come i braccialetti che indicano la posizione nella coda, ne permettono il rientro dopo una sosta in toilette e vengono periodicamente controllati, casomai – è improbabilissimo – qualcuno volesse fare il furbo, o l’addetto che con un drappo nero appeso a uno zainetto segnala la fine della coda stessa, e dunque è l’unico che non si muove, The Queue sembra una confortante manifestazione di britannicità, un segnale rassicurante che non tutto è perduto, che la Regina non c’è più, ma c’è ancora qualcosa che distingue il Regno Unito dalle altre nazioni.
Nel suo trattato The English People (Gli inglesi), del 1936, George Orwell, autore più moderno che mai considerando i tempi che stiamo vivendo, scrisse che «un immaginario osservatore straniero per la prima volta in Gran Bretagna resterebbe certamente colpito dalla nostra cortesia, dal nostro comportamento composto negli assembramenti, l’assenza di spintoni e discussioni, la nostra voglia di metterci in coda», mentre secondo George Mikes, giornalista e umorista nato in Ungheria ma trasferitosi a Londra nel 1938, un inglese anche se è da solo ha la tendenza a formare una coda. Coda che è, per le menti lucide, non costrizione ma libertà, non sforzo ma pratica defaticante: al contrario di quanto avviene in altre nazioni, puoi stare tranquillo e rilassarti, non devi impegnare le tue forze nervose e fisiche nel controllo costante che qualcuno non ti freghi il posto.
Le origini della passione britannica per la coda
È curioso però riflettere sulle origini di quella che viene unanimemente considerata una peculiarità di origine britannica, e che come altri segni distintivi nasce in realtà da elementi quasi casuali: per via della Rivoluzione Industriale, nel Regno Unito l’afflusso di persone dalle campagne verso le città avvenne in maniera più massiccia e più rapida che altrove. Per evitare il caos, bisognava istituire una forma di controllo, che venne applicata per gli acquisti nei negozi, rispetto al tutti contro tutti nei mercati all’aperto, poi, con l’evolversi della logistica, alle fermate degli autobus, tuttora considerate lo scenario in cui il mettersi in coda mostra maggiormente tutta la sua forza.
Ne parla in modo chiaro Joe Moran, nel suo libro Queuing for Beginners: The Story of Daily Life from Breakfast to Bedtime (Code, manuale per principianti: una giornata tipo, dalla colazione alla buonanotte): la fila nasce in forma democratica e meritocratica – il merito è quello di essere arrivati prima – ma col tempo diviene una forma di controllo e porta con sé tracce di differenziazione sociale. Perché in fila, nell’Ottocento in cui l’Impero con la Regina Vittoria si espande ma in molte città ci sono macchie di drammatico disagio, vanno i poveri alle mense di carità, e durante la Seconda Guerra Mondiale tocca a quelli che hanno avuto la casa distrutta da un bombardamento o una V1 o V2 tedesca e per mangiare o vestirsi dipendono dal camioncino con i viveri e gli abiti.
Un mito che nasce durante la Seconda Guerra mondiale
In quel momento si aggiunge la necessità, per il Governo, di mostrare al mondo – spie comprese – che i londinesi non si perdono d’animo e non vanno nel panico. Anche se le testimonianze raccolte da Moran dicono che spesso, quando venivano magari messi in vendita beni non sottoposti a razionamento, le code si formavano solo sotto controllo delle forze dell’ordine ed erano molto agitate: capitava infatti che vedendone formare una molti si unissero senza nemmeno sapere cosa venisse venduto o distribuito, e una volta venutine a conoscenza abbandonassero all’improvviso causando rapidi avanzamenti di chi era alle loro spalle.
Fu insomma durante la Seconda Guerra mondiale che si formarono due miti: quello della coda e quello della pazienza britannica nel rispettarla. Comportamenti che sono stati oggetto di numerosi studi ed esperimenti, con risultati interessanti e discordanti: c’è chi sostiene, con prove, che pretendere il rispetto della coda obbedisca non a un innato senso di giustizia ma all’esigenza di proteggere il proprio posto nella coda stessa, mentre secondo il professor Luke Treglown, dello University College di Londra, «è vero che a nessuno piace né fare la coda [né vedere che qualcuno la salta], ma il britannico medio ha un apprezzamento superiore dell’ordine e dell’uguaglianza che nascono da una coda».
Al punto che sale il nervoso, dice Treglown, anche quando in realtà nessuno cerca di fare il furbo: «Ci arrabbiamo se una fila accanto alla nostra è più veloce, ad esempio, o se al ristorante chi arriva molto dopo di noi trova un tavolo nel nostro stesso momento. Abbiamo come la percezione che chi arriva dopo deve attendere perlomeno per lo stesso periodo di tempo in cui abbiamo atteso noi, anche se la cosa non ci tocca minimamente».
C’è coda e coda
Ma, come emerge dall’opera di Moran, c’è fila e fila: quella, storica, per i biglietti a Wimbledon fa parte di un rituale così come ora quella per Elisabetta II, per l’ingresso ai concerti alla Royal Albert Hall o a Glastonbury, ma si tratta di sistemi sottoposti a controllo da parte di un’autorità, mentre se devi aspettare l’autobus devi autoregolarti e non sempre ci riesci.
Ecco perché a Londra, specialmente nelle zone turistiche, alle fermate si sale ormai sempre più spesso in maniera disordinata: innanzitutto, non siamo più nel 1944 e il londinese medio è molto diverso da quello di allora, anche se a osservare i volti in coda per la Regina non parrebbe; in più le orde di turisti e di apolidi se ne fregano altamente di tradizioni, schemi mentali e rispetto e si buttano sulla prima porta che si apre. Ai danni della globalizzazione, magari non tra i peggiori, aggiungiamo pure questo.
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