
Occhio all’Indonesia, che potrebbe far saltare il “price cap” sul petrolio

Nella partita a scacchi che sono diventate le sanzioni alle esportazioni di gas e petrolio che i paesi occidentali hanno comminato alla Russia per l’invasione dell’Ucraina un ruolo speciale lo rivestono i grandi paesi in via di industrializzazione dell’Asia: ad essi si rivolgono sia gli alleati euro-atlantici che i russi per tirarli rispettivamente dalla propria parte.
I secondi offrono contratti per l’acquisto di petrolio a prezzi stracciati (30 per cento di sconto sul prezzo di mercato internazionale) e a lunga scadenza, i primi cercano di convincere i grandi importatori asiatici ad aderire a un “price cap” sul petrolio russo, cioè a non effettuare acquisti al di sopra di un certo prezzo che deve ancora essere stabilito, ma che sarà sensibilmente inferiore a quello di mercato.
Il pressing occidentale sui grandi consumatori asiatici dipende dal fatto che se solo europei, nordamericani e giapponesi aderissero alla decisione presa in sede di G7, il price cap non avrebbe effetti. La Russia a sua volta minaccia di cessare le vendite del suo petrolio ai paesi che aderissero al “price cap”, un atto che metterebbe in difficoltà non solo i paesi bersagliati: se la Russia, che è il più grande esportatore di petrolio al mondo dopo l’Arabia Saudita, riducesse in misura cospicua le sue esportazioni, dopo i prezzi del gas anche quelli del petrolio prenderebbero il volo a livello mondiale.
Occhi puntati sull’India
In questi giorni l’attenzione dei media è concentrata sull’India, vista come il paese che potrebbe fare la differenza se aderisse al progetto di “price cap”, cosa molto difficile sia perché gli indiani da sempre hanno un rapporto speciale prima con l’Urss e poi con la Russia, sia soprattutto perché gli indiani temono di perdere capacità competitiva rispetto agli altri paesi asiatici che approfitterebbero del petrolio russo a prezzi stracciati.
Secondo le analisi del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), istituto finlandese, fra febbraio e agosto l’India avrebbe importato dalla Russia energia per un valore di 7 miliardi di euro, che non è niente se confrontato agli 85 miliardi di euro che nello stesso periodo i 27 paesi della Ue hanno pagato a Mosca per gas e petrolio. Sta di fatto che, mentre fino all’anno scorso l’India quasi non importava petrolio dalla Russia, attualmente tali importazioni sono pari a 1 milione di barili al giorno, ovvero l’1 per cento di tutte le forniture mondiali di petrolio.
Le ambiguità dell’Indonesia
Lontano dai radar resta l’Indonesia, quarto paese al mondo per numero di abitanti (279 milioni) e decimo Pil mondiale calcolato a parità di potere d’acquisto. Eppure l’Indonesia è il paese che può far saltare il progetto di “price cap” sul petrolio del G7: già nel marzo scorso era stata sul punto di accettare le offerte russe di petrolio a prezzi scontati, per poi rinunciare ufficialmente nel mese di maggio perché, dichiarò diplomaticamente il presidente di Pertamina, l’ente di Stato indonesiano per gli idrocarburi, «ci siamo accorti che abbiamo sufficienti riserve per le nostre raffinerie».
Nel mese di aprile una petroliera della Pertamina era stata “intercettata” nei pressi della Danimarca da attivisti di Greenpeace che si dicevano certi che la nave trasportava petrolio russo. Alla fine di agosto l’ipotesi di acquistare dalla Russia è tornata d’attualità. In un video pubblicato sul suo account Instagram, il ministro del Turismo Sandiaga Uno ha affermato che all’Indonesia era stato proposto greggio russo con uno sconto del 30 per cento sul prezzo di mercato, e che il presidente Joko “Jokowi” Widodo stava prendendo in considerazione l’offerta, ma c’erano preoccupazioni per eventuali sanzioni da parte degli Usa. Né il presidente né Pertamina hanno commentato l’irrituale uscita del ministro del Turismo.
Con Putin o con Zelensky?
Com’è noto, nel giugno scorso il presidente indonesiano ha invitato sia Volodymyr Zelensky che Vladimir Putin a partecipare al summit del G20 che si terrà a Bali nel prossimo mese di novembre, offrendosi di fatto di mediare fra i due paesi in guerra.
Il 30 giugno scorso Widodo visitò prima Kiev e poi Mosca, trattenendosi con Zelensky per un’ora e mezzo, e con Putin per due ore e mezzo. Al ritorno ammise che il colloquio con Putin era stato spinoso. Nell’incontro si discussero molti temi che non avevano a che fare con la guerra in Ucraina, come l’istituzione di un’area di libero scambio fra l’Indonesia e l’Unione economica eurasiatica (Uee, che comprende Russia, Bielorussia, Kazakistan e Armenia), investimenti in progetti strategici come la metropolitana di superficie di Nusantara, la nuova capitale dell’Indonesia in via di costruzione nell’isola del Borneo, e naturalmente la possibilità che l’Indonesia importasse petrolio russo.
Alto consumo interno
Il paese non è privo di risorse petrolifere: attualmente estrae 600-650 mila barili al giorno (23° produttore mondiale), ma ne esporta solo 117 mila, a causa dell’alto consumo interno. Per mantenere la pace sociale ed evitare processi inflattivi, il governo di Widodo spende ingenti cifre nei sussidi ai carburanti.
Negli ultimi due anni l’importo dei sussidi per stabilizzare il prezzo dei carburanti, dell’elettricità e del gpl è triplicato, passando da 152 mila miliardi di rupie indonesiane a 502 mila miliardi, cioè da 10 a 33,8 miliardi di dollari, pari al 20 per cento dell’intero bilancio dello Stato.
Una prima decisione di aumentare del 30 per cento il prezzo di alcuni carburanti per contenere il deficit pubblico è stata presa, ma subito ha scatenato proteste di piazza il 5 settembre scorso. Accettare le offerte russe di petrolio a prezzo scontato rappresenterebbe una boccata di ossigeno per le politiche del presidente Widodo, ma i rischi di rappresaglie occidentali fanno esitare l’esecutivo.
Movimenti sottotraccia
Sulla sponda russa, di curare la trama di rapporti con l’Indonesia sembra essere stato incaricato il presidente della repubblica del Tatarstan (l’unica a maggioranza islamica nella Federazione Russa) Rustam Minnichanov, che è anche presidente del Gruppo di visione strategica Russia – Mondo islamico, fondata nel 2006 dall’ex ministro degli Esteri Evgenij Primakov e dall’allora presidente del Tatarstan Mintimer Shaimiev.
I figli di quest’ultimo, Airat e Radik, sono azionisti della holding Taif, associata dalla fine del 2021 al gruppo Sibur, così da costituire il più grande consorzio petrolchimico della Russia. Minnichanov e i fratelli Shaimiev sarebbero fra gli organizzatori della visita nel Tatarstan del 19 agosto scorso di una delegazione indonesiana capeggiata dal presidente dell’Unione delle cooperative di Indonesia Mohamad Sukri Tarmidi.
Non è chiaro il livello degli industriali della delegazione indonesiana (della quale facevano parte anche dirigenti di cooperative che gestiscono scuole islamiche), che hanno voluto incontrare il gran mufti di Mosca e quello di Kazan, ma secondo alcuni resoconti i partecipanti si sono familiarizzati con le attività della filiale specializzata nella raffinazione del petrolio della Taif e dell’omologa Taneco, filiale della società Tatneft di cui Minnichanov presiede il Consiglio di amministrazione. L’Indonesia rappresenta il più popoloso paese islamico del mondo, con 231 milioni di musulmani su una popolazione totale di 279 milioni.
Foto Ansa
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