Nelle indagini sul petrolio lucano il vero pozzo di ambiguità è il “traffico d’influenze”

Di Maurizio Tortorella
17 Aprile 2016
Non tutto è corruzione. Il nuovo reato, troppo analogo al lobbismo, è l’ennesimo introdotto nel codice penale a colpi di forcone. Si preannunciano pasticci

petrolio-basilicata-ansa

Pubblichiamo la rubrica di Maurizio Tortorella contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

L’inchiesta della procura di Potenza sulle presunte malversazioni nella gestione degli impianti petroliferi lucani, quella che ha squassato il governo Renzi e indotto alle dimissioni il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, gira quasi tutta intorno al “traffico d’influenze illecite”: un reato nuovo. Varato dal governo Monti, entrato in vigore alla fine del 2012, il nuovo articolo 346 bis del Codice penale prevede una pena da uno a tre anni di reclusione per chiunque, «sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio», ottiene denaro o promesse, o altri vantaggi come «prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale». In parole povere, sei un “trafficante d’influenze” se brighi per un appalto o per un affare con un assessore, un sindaco, e su su fino a un ministro.

Ma non è tutto così semplice. Non sempre tutto è o nero o bianco. Al contrario, il traffico d’influenze è un reato molto complicato, attiene tipicamente a quel mondo in grigio che è il lavorio delle lobby, in tutti i Paesi occidentali pienamente legittimate a contattare e convincere legislatori e governanti della bontà delle loro tesi e di certi interessi in gioco. Non tutto è corruzione o concussione, insomma.

Per di più, essendo recente la sua introduzione, non esistono ancora precedenti penali per il traffico d’influenze: la Corte di cassazione non ha mai analizzato casi specifici di questo reato, così non l’ha mai discusso, studiato, metabolizzato. Come dicono i tecnici, non esiste giurisprudenza. Per questo, le possibilità di interpretazioni difformi, tra pubblici ministeri e giudici (e tra giudici e giudici di diversi gradi processuali), sono estremamente elevate.

Insomma, il processo lucano non sarà facile come lasciano intendere i primi colpi che si sono letti sui quotidiani. Una visione pessimistica? Non sono soltanto io a dirlo. Carlo Nordio, oggi procuratore aggiunto di Venezia, magistrato di lungo corso e di grande esperienza, ma soprattutto uomo estremamente ragionevole ed equilibrato, ha scritto che il traffico d’influenze è «di difficile definizione e di ancor più laboriosa applicazione».

«Non esistono innocenti»
La norma, va ricordato, nacque per input sovranazionale: alcune convenzioni a livello europeo indussero all’impresa il governo di Mario Monti. L’operazione fu decisamente sponsorizzata dall’Associazione nazionale magistrati, al suo interno spinta da quella parte di toghe meno incline alla riflessione, e da sempre convinta che «non esistono innocenti, ma soltanto colpevoli ancora da scoprire».

Alla fine, la riforma del Codice venne approvata con il voto compatto del Partito democratico e del Movimento 5 stelle. Fu votata in parte anche da Forza Italia, sia pure tra mille defezioni. Al Senato Filippo Berselli, che era presidente della commissione Giustizia, correttamente avvisò: «Prima dovremmo disciplinare l’attività lobbistica, altrimenti rischieremo di metterla di fatto fuori legge». Non fu ascoltato. Pochi in aula, alla Camera dei deputati, si dissociarono. Fabrizio Cicchitto, sensatamente, disse: «Diamo un eccessivo potere discrezionale ai pubblici ministeri». Una voce nel deserto.

Ora siamo al primo redde rationem. Ma non è difficile prevedere che anche il traffico d’influenze, come altri reati (e come alcuni rafforzamenti di pena) introdotti sull’onda del populismo giudiziario, produrrà più guai che risultati.

@mautortorella

Foto Ansa

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.