Inchiesta Grandi opere/2 Imprese su misura

Di Carlo Sala
24 Luglio 2012
Pochi grandi player e migliaia di realtà di dimensioni medie e piccole. Fotografia di un paese costretto da anni a dosare le proprie ambizioni. La seconda parte dell'inchiesta.

Pubblichiamo la seconda e ultima parte dell’inchiesta Grandi opere (qui la prima parte) pubblicata sullo speciale Grandi opere di Tempi 2012.

«Dobbiamo constatare come, riguardo alla crescita dimensionale, l’Italia resti molto arretrata nelle classifiche europee e mondiali, ed anzi il suo gap tenda ad allargarsi negli ultimi anni». Il giudizio, espresso nell’Analisi economica e produttiva dei primi 50 gruppi delle costruzioni in Italia condotta dall’Osservatorio Grandi Imprese e Lavoro della Fillea-Cgil (il sindacato degli addetti ai cantieri) non riguarda le infrastrutture in sé, ma le aziende chiamate a realizzarle. E sebbene espresso un anno fa, difficilmente l’imminente nuovo rapporto se ne distanzierà.

Tredicimila potenziali stazioni appaltanti, secondo il Centro Studi dell’Ance (l’Associazione nazionale dei costruttori edili) – dai Provveditorati alle Opere pubbliche alle Asl, dall’Anas alle Ferrovie dello Stato – e 7-800 mila imprese edili (secondo le stime di Fillea) comportano una parcellizzazione sia delle commesse per opere pubbliche, sia degli operatori che tali commesse eseguono. «La tradizionale struttura proprietaria familiare rende più difficili le aggregazioni», notano al Cerved, società specializzata nell’analisi gestionale delle imprese. E questo vale anche nel campo dell’ingegneria civile. Soprattutto perché quest’ultima – ricorda Michele Ugliola, esperto del settore – affonda le sue radici nelle piccole società di costruzione edile. D’altro lato, osserva il Centro Studi dell’Ance, la dimensione delle aziende «dipende dalla domanda nazionale, che si è polverizzata in dimensioni medio-piccole negli ultimi anni», perché, a fronte di una richiesta di opere infrastrutturali che resta alta, le risorse per realizzarle sono drasticamente diminuite. Così, in una sorta di devolution degli interventi, a mettere in opera infrastrutture sono sempre più le realtà locali, con dimensioni, disponibilità ed esigenze circoscritte. Di contro, secondo l’analisi dell’Osservatorio della Fillea «il grande nodo critico resta quello di una politica infrastrutturale bloccata nelle risorse e poco efficace nel canalizzare gli investimenti verso priorità strategiche per il paese».

Il Censis nella sua relazione Tornare a desiderare le infrastrutture indica chiaramente Tangentopoli tra le cause di arresto dei lavori di ammodernamento del Paese, qualcuno rimpiange il ministero delle Partecipazioni statali, qualcun altro – Alessandra Graziani, dell’Osservatorio Fillea – rimprovera alle stesse aziende del settore un passo lento, già dagli anni Settanta, dal punto di vista tecnologico e industriale (frutto anche di una conduzione prevalentemente familiare e quindi a volte più conservativa che manageriale). Quale che sia la causa, il risultato è uno, certificato dalla rivista americana di settore Enr: tra le prime 100 aziende di ingegneria civile al mondo del 2011 le italiane sono undici. Neanche poche, a fronte della colossale crescita delle concorrenti cinesi. Ma se Saipem è sesta e ha scalato una posizione rispetto all’anno precedente, Gruppo Techint, Maire Tecnimont Impregilo, Salini e Ansaldo Energia perdono terreno, rispettivamente dalla 27esima alla 38esima posizione, dalla 36esima alla 39esima, dalla 40esima alla 50esima, dalla 71esima alla 90esima e dalla 82esima alla 93esima (stabile Astaldi in 65esima posizione, il 2011 ha registrato poi le new entry di Danieli & C e di Anstaldo, rispettivamente al 36esimo e al 91esimo posto, e l’ingresso di ABB e Bonatti, rispettivamente 98esima e 99esima, tra le top 100).

Certo, come avvertono tanto l’Ance che l’Istituto per le Grandi Infrastrutture (IGI), il paragone con l’estero deve tenere conto del fatto che le aziende straniere assommano in sé tutta una serie di attività che le aziende italiane non svolgono o – nel caso delle concessioni d’uso delle opere compiute – svolgono solo da poco. E la stessa Saipem, prima italiana nella classifica di categoria, deve la sua posizione soprattutto all’attività in campo energetico piuttosto che all’impiantistica di cui si occupa a fini di estrazione e trasporto.

Merging d’Oltralpe e fusioni italiane
Il raffronto tra il gruppo francese Vinci e l’italiana Salini-Todini offre tuttavia un dato significativo: il merging d’oltralpe tra Dumez e Sge ha portato alla costituzione del secondo gruppo di ingegneria civile al mondo, dietro i tedeschi di Hochtief AG, la fusione italiana ha consentito di creare un gruppo immediatamente divenuto il terzo player dello Stivale ma solo centoquinto, secondo la classifica Enr del 2008, a livello planetario. Una manciata le aziende italiane che fatturano oltre un miliardo a esercizio secondo gli ultimi bilanci disponibili (2010) – Impregilo, Astaldi, Trevi, Salini-Todini, nonché Consorzio Cooperative Costruzioni, Consorzio stabile Eureca (tra Cmb e Unieco) – il panorama del Belpaese è caratterizzato da una polarizzazione: da un lato i quattro gruppi quotati in Borsa (Impregilo, Astaldi, Trevi e Vianini) che detengono all’incirca il 30 per cento delle opere messe in cantiere nel Paese, dall’altro aziende più piccole con potenziali problemi di accesso al credito (problemi cui non sfuggono neppure i players maggiori, ma che soprattutto per i più piccoli rischiano, secondo la Cgil, di favorire il riciclaggio di capitali di provenienza illegale) mentre la realizzazione di progetti è sempre più legata al project financing (che prevede una remunerazione successiva, tramite concessione d’uso, dei costi sostenuti per realizzare l’opera).

«Certamente il reperimento delle risorse private si è fatto più difficile in questa fase, soprattutto negli ultimi 4 anni – conferma dall’IGI l’avvocato Federico Titomanlio – mentre i lotti delle opere da realizzare restano di entità complessivamente corposa, come nei casi dell’Alta Velocità ferroviaria o della Salerno-Reggio Calabria. A fronte di questo però – prosegue – il raffronto con l’estero deve tenere conto del fatto che lì le aziende, come le francesi Bouygues e Vinci, svolgono attività anche in settori estranei alle grandi opere, mentre quelle italiane solo da poco si occupano anche della gestione/concessione di infrastrutture, un tempo svolte da società Autostrade e Iri». Come il Censis, anche Titomanlio punta il dito soprattutto contro Tangentopoli: «Allora le grandi imprese del settore erano una trentina, oggi si contano sulla punta delle dita».

Più simili a prede che predatori
Per le opere di maggiore entità, sottolinea il centro studi dell’Ance, la prassi resta comunque quella di joint-venture temporanee dietro un general contractor che fa da capofila. Realizzazioni come l’Alta Velocità ferroviaria o il Ponte sullo Stretto di Messina richiedono infatti un impegno che nessuna concessione d’uso d’opera appare plausibilmente idonea a ripagare nel tempo. Considerato anche un modo per ripartire i proventi dalle grandi opere tra le diverse forze politiche e le imprese ad esse legate ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, il ricorso alla joint-venture offre peraltro, secondo alcuni, vantaggi in termini di flessibilità perché consente aggregazioni tra aziende con specializzazioni diverse, come nel caso di MM-Italfer e Technital – e perché attraverso partnership locali può agevolare, soprattutto per commesse estere, l’ingresso in nuovi mercati.

A fronte di una domanda interna sempre più asfittica – soprattutto dal 2010 – quella straniera ha un peso sempre maggiore sui bilanci delle aziende italiane: l’Osservatorio Fillea nel 2011 stimava che fosse «passata dal 33,2 per cento del 2008 al 37,1 per cento del 2009». Sempre secondo quell’analisi, tuttavia, alle imprese italiane «manca ancora una politica di penetrazione stabile nei mercati esteri, perseguita da acquisizioni di società locali», e di conseguenza l’incremento di commesse straniere «non riesce a riequilibrare la caduta interna degli investimenti». Osservando che almeno in Europa non esiste una perfetta par condicio tra il trattamento che le imprese straniere del settore ricevono in Italia e quello riservato alle aziende nostrane nei Paesi Ue, l’avvocato Titomanlio (IGI) addebita alla politica tout court la scarsa penetrazione degli operatori italiani nei mercati internazionali: «Anni fa – ricorda – si mosse lo stesso Mitterand perché la realizzazione di una diga in Sudamerica fosse affidata a ditte francesi, a scapito peraltro della nostra Impregilo. E ancora oggi molti Paesi svolgono un’azione di promozione e accompagnamento delle loro aziende molto più incisiva».

In una sorta di rivincita del “piccolo è bello”, peraltro, mentre le grandi aziende italiane restano più possibili prede che predatori di concorrenti stranieri – in febbraio si è parlato di un interessamento (smentito) del gruppo Vinci per Impregilo, A2A è fortemente tributaria del know how transalpino –, come ricorda ancora l’Osservatorio Fillea ad assurgere a posizioni di leadership mondiale sono state, grazie a una specializzazione estrema in settori di nicchia, aziende di dimensioni complessivamente contenute, a parte Trevi (perforazioni e fondazioni): Seli (scavi per gallerie), Rizzani (costruzione di ponti) solo per fare due esempi.

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