
Inchiesta Grandi opere/1 50 anni di ritardi
Pubblichiamo la prima parte dell’inchiesta sulle infrastrutture in Italia pubblicata sullo speciale Grandi opere di Tempi 2012.
In principio fu l’Autosole: 8 anni di cantieri – una velocità d’esecuzione oggi invidiabile – che agli albori degli anni Settanta dotarono l’Italia, si legge nel rapporto Tornare a desiderare le infrastrutture pubblicato a marzo dal Censis, di un sistema autostradale secondo solo alla Germania, in Europa. E che soprattutto, osserva lo stesso rapporto, fecero da volano alla crescita del Paese, ponendo le premesse per una serie di insediamenti produttivi che trovavano nella stessa autostrada il canale di commercializzazione dei propri prodotti. Poi, però, quello sforzo innovatore si perse.
Impietosa la fotografia scattata dal Censis sulla base di dati Eurostat (si veda la tabella 1), l’Italia – secondo quanto si legge nel Libro bianco sui trasporti 2012 diffuso da Confcommercio – ha perso 50 anni di tempo. Risultato? Una mancata crescita del prodotto interno lordo quantificata dallo stesso Libro bianco in 142 miliardi di euro per il decennio 2001-2010. Le grandi opere – lo dice la stessa parola “infrastrutture” – sono infatti ciò che sta alla base dello sviluppo economico, della possibilità di competere sui mercati. E l’equazione infrastrutture-competitività è stata certificata dal Global Competitiveness Report del World Economic Forum: 73esima su 139 Paesi esaminati quanto a qualità complessiva delle infrastrutture, l’Italia si colloca in 49esima posizione quanto a competitività sui mercati, ben lontana da Germania (quinta), Regno Unito (12esimo), Francia (15esima) e superata pure dalla Spagna (42esima). Ma il gap infrastrutturale che relega l’Italia così indietro in classifica non riguarda solo le autostrade, come evidenzia la relazione del Censis (tabella 2).
È comunque nell’ambito dei trasporti – quindi: strade, autostrade, ferrovie, ma anche porti, aeroporti ed interporti – che emerge più chiaramente il gap tra la realtà attuale e le attese, convergenti, dell’Europa e del mondo imprenditoriale italiano. A fronte dei quattro progetti europei sul trasporto ferroviario che interessano anche il Belpaese (tabella 3), 19 anni dopo il Piano Delors del 1993 – lamenta Confcommercio – l’Italia ha realizzato soltanto una delle tre priorità allora previste (l’aeroporto di Malpensa), mentre le tratte ferroviarie Torino-Lione e del Brennero restano di là da venire.
Non stupisce allora che nell’Atlante delle priorità e delle criticità infrastrutturali dello scorso aprile Unioncamere rilevi che il sistema ferroviario è giudicato inadeguato dal 72 per cento del mondo produttivo italiano. Lanfranco Senn, docente di gestione pubblica all’università Bocconi e direttore CERTeT, ravvisa una certa rigidità dello stesso mondo produttivo a “fare sistema”, a unirsi cioè nel trasportare i propri prodotti via ferro, così da garantire quel load factor (indice di carico) dei convogli ferroviari senza il quale è difficile creare un’adeguata offerta di servizi di trasporto merci via ferro. Il risultato pratico è comunque uno: il 91 per cento del traffico merci in Italia si svolge tuttora su gomma, nonostante le preoccupazioni che tale sistema desta in sede Ue sia per l’impatto sull’aria che per i costi (il prezzo del petrolio è stimato raddoppiare negli anni a venire).
Viabilità, l’urgenza massima
Con la più alta densità di parco veicoli in circolazione in Europa a quanto si legge nel Libro bianco di Confcommercio – 41,4 milioni di unità, con un incremento del 271 per cento rispetto al 1970 (di contro a una crescita della rete stradale nello stesso periodo solo del 34 per cento), fanno una media di 225 veicoli per ogni chilometro di strada – la rete viaria italiana appare inadeguata soprattutto per quanto riguarda le strade urbane, comunali, provinciali e statali e resta ben più del ferro il settore su cui il mondo produttivo italiano chiede di intervenire. Come rileva ancora l’Atlante di Unioncamere, mentre la rete autostradale appare insufficiente o gravemente inadeguata a una percentuale (44 per cento) elevata ma non maggioritaria di imprese, il giudizio peggiora riguardo ai canali che collegano le autostrade coi luoghi di produzione e/o destinazione delle merci: la viabilità statale è insufficiente o gravemente inadeguata per il 56 per cento del mondo produttivo, quella gestita da Comuni e Province per il 46 per cento. E dentro le città, la distribuzione delle merci riscuote un 52 per cento di giudizi negativi. Il motivo di tanta insoddisfazione è evidente, come spiega Stefano Zunarelli, professore di diritto dei trasporti a Bologna: i grandi centri urbani rappresentano infatti i classici “colli di bottiglia”, cioè degli strozzamenti che costringono le merci in uscita, in arrivo o in transito a forti rallentamenti nel loro tragitto. Secondo la diagnosi del Censis, «la velocità media attuale nei maggiori centri urbani italiani ricorda da vicino quella raggiunta alla fine del Settecento: oscilla intorno ai 15 km/h e scende fino a 7-8 km/h nelle ore di punta. È uno dei sintomi più macroscopici del “congestionamento” delle reti urbane e metropolitane del Belpaese, con costi sociali ed economici altissimi. E che a sua volta produce effetti difficilmente sostenibili, se non grotteschi, come il fatto che si impieghi più tempo per raggiungere l’aeroporto di Malpensa o di Orio al Serio dal centro di Milano che per viaggiare in aereo tra il capoluogo lombardo e Trapani».
Se nel decennio 2001-2010, non c’è stato un grande centro italiano che non abbia registrato un peggioramento della propria accessibilità (intesa appunto come scorrevolezza, si veda tabella 4), da uno studio reso noto a febbraio dall’eurodeputata Cristiana Muscardini, vicepresidente della commissione Commercio del Parlamento europeo, risulta che la situazione infrastrutturale di Genova, principale porto italiano, ha comportato uno spostamento del traffico merci sulle più attrezzate Rotterdam e Amburgo tale da provocare un mancato gettito fiscale per l’Italia (per lo sdoganamento di merci in arrivo) pari a 750 milioni di euro. Certo l’orografia del capoluogo ligure non aiuta, ma Alessandria, osserva il professor Senn, offrirebbe spazi adeguati come “retroporto” per le attività che la città della Lanterna non può ospitare. Analogamente, un miglioramento dei collegamenti, secondo i dettami dell’Europa, consoliderebbe la crescita dell’area portuale di Ravenna, dove si ipotizza anche di realizzare un rigassificatore – un impianto in grado di scaricare e distribuire il gas liquefatto importato da Paesi geograficamente lontani e collegati solo via mare – potenzialmente utile ad attenuare la dipendenza europea dalle forniture energetiche via gasdotto dalla Russia.
A rischio delocalizzazione
Tale è l’attesa di nuovi collegamenti che Gabriele Giacobazzi, assessore comunale all’Urbanistica di Modena e presidente dell’Oice (che raggruppa le organizzazioni attive nei settori dell’ingegneria, dell’architettura e della consulenza economico-finanziaria), arriva a giocare sul filo del paradosso e confida nel recente sisma in Emilia-Romagna quale spinta propulsiva ad aprire gli occhi sul rischio di delocalizzazione delle imprese all’estero e a dare integralmente seguito a quell’autostrada Cisalpina – collegamento tra Tirreno (La Spezia) e Adriatico (zona di Ferrara) che passa attraverso la bassa padana lombarda – della quale per ora è in programma, nel 2013, una piccola tratta. Mentre Piaggio non sembra aver patito eccessivamente la collocazione dei propri stabilimenti in un’area tuttora suscettibile di migliorie nei collegamenti e Luxottica è addirittura divenuta leader mondiale nella produzione di occhiali partendo da una regione che detiene il record dell’opera attesa da più tempo – quella Pedemontana veneta di cui, come riferisce Confcommercio, si è iniziato a parlare 46 anni fa e che ha visto aprire i cantieri solo lo scorso dicembre –, a soffrire il gap di collegamenti è soprattutto il Sud. A dispetto di una diffusa vulgata, il Nord Est e, a seguire, il Nord Ovest, sono infatti – a quanto risulta a Unioncamere – le macroaree economiche italiane dove complessivamente minore è il senso di insoddisfazione per la dotazione infrastrutturale già disponibile. E se l’opera su cui più si appuntano le attese del mondo produttivo resta l’asse pedemontano Piemonte-Lombardia-Veneto, subito alle sue spalle, nella top ten stilata da Unioncamere nel suo Atlante (tabella 5), figura il cosiddetto quadrilatero viario del centro Italia, cui anche l’Oice, per bocca di Giacobazzi, lega la possibilità di una crescita del Paese complessivamente più omogenea e meno squilibrata per macroaree.
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