
Non dite ai vostri figli che «la Terra è in fiamme»: non è vero

Quello che segue è il nono di una serie di articoli firmati da Bjørn Lomborg e pubblicati da Tempi in esclusiva per l’Italia in occasione della Cop26, la conferenza globale sul clima a Glasgow. Lo scopo di questa rubrica è mettere in luce dati scientifici spesso trascurati nella narrazione dominante sul clima, eppure non meno importanti del fatto che «il cambiamento climatico è un fenomeno reale e causato dall’uomo», come sostiene Lomborg.
Le puntate precedenti sono disponibili qui.
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Aggiungete gli incendi alla lunga lista dei disastri naturali ipersbandierati nelle cronache sul clima. Spaventano tanto i grandi quanto i piccini, come quando la figlia di 9 anni di una deputata americana dice angosciata: «La Terra è in fiamme e noi presto moriremo tutti». Questo semplicemente non è vero.
Nei primi del Novecento bruciava a livello mondiale circa il 4,2 per cento di territorio ogni anno. Un secolo più tardi, quel valore si era ridotto a quasi il 3 per cento. Tale diminuzione è proseguita nell’era dei satelliti e probabilmente il 2021 si chiuderà con appena il 2,5 per cento del pianeta consumato dalle fiamme, sulla base dei dati raccolti fino al 31 agosto.
Questi dati non sono minimamente contestati. Perfino in un rapporto del World Wildlife Fund – con il sottotitolo da brividi “Una crisi che infuria fuori controllo?” – si trova la mezza concessione che «la porzione di territorio bruciata diminuisce globalmente in modo costante da quando il dato ha iniziato a essere registrato nel 1900».
Il merito va all’ingegno umano: le persone sono passate dai focolari alle centrali elettriche, hanno trasformato territori selvaggi in fattorie protette e creato tanta ricchezza da consentire che le società possano permettersi di difendere i dintorni con sistemi di soppressione del fuoco e gestione delle foreste.
Gli studi del clima che prevedono incrementi significativi degli incendi tipicamente ignorano queste cose. Costruiscono modelli basati soltanto sui cambiamenti delle temperature, escludendo le misure che le persone potrebbero prendere in reazione ad essi. Come sostiene il rapporto dell’Onu sul clima di quest’anno, con il continuo aumentare delle temperature il “fire weather” (condizioni meteorologiche che favoriscono gli incendi) si verificherà con maggiore frequenza. Ma ciò non vuol dire che le persone se ne resteranno sedute e immobili lasciando che questo accada.
Quando i modelli tengono conto dell’adattamento umano, ecco che questi aumenti dei danni provocati dagli incendi scompaiono. Uno studio dell’aprile scorso prevede che la crescita della popolazione e lo sviluppo economico sopravanzeranno il potenziale effetto di amplificazione degli incendi da parte del riscaldamento globale. Le politiche climatiche possono determinare una maggiore riduzione in termini di territorio bruciato, ma al prezzo di molti trilioni di dollari.
Analogamente, una parte preponderante delle cronache sugli incendi ignora i dati. Nell’autunno scorso l’intera prima pagina del Los Angeles Times lanciava l’allarme sulla “Apocalisse climatica in California” mentre divampavano gli incendi nello stato. Quegli incendi, però, appaiono trascurabili in un contesto storico. Prima del 1800 gli incendi divoravano ogni anno in media fra il 4,5 e il 12 per cento della California, molto più del 4,2 per cento andato bruciato nella “apocalisse climatica” del 2020.
Se è vero che la porzione degli Stati Uniti arsa dagli incendi si è allargata dagli anni Ottanta a oggi, in parte per effetto del cambiamento climatico, va però detto anche altro. Le fiamme oggi in America bruciano meno di un quinto della superficie che veniva incenerita ogni anno negli anni Trenta, e un panel di esperti ha scoperto che la recente impennata è per lo più il risultato della malagestione delle foreste.
Forse il migliore esempio di istrionismo mediatico ingiustificato si è visto in reazione alla stagione degli incendi in Australia tra il 2019 e il 2020. I giornali ricoprirono le prime pagine con immagini della distruzione, con titoli come “Apocalypse Now”, “La costa del terrore” e “Ecco com’è fatta una crisi climatica”. Eppure le misurazioni satellitari hanno dimostrato che l’area complessiva andata bruciata in quella stagione di incendi è stata una delle più ridotte che l’Australia abbia visto negli ultimi 120 anni. Per usare la laconica espressione dell’ultimo rapporto ambientale della Australian National University, gli incendi del 2019-2020 sono stati «ben al di sotto della media».
È vero che probabilmente più persone in futuro saranno minacciate dagli incendi, ma il motivo è che parte della crescente popolazione mondiale si stabilirà dove gli incendi sono più frequenti. Il numero di abitazioni nelle zone ad alto rischio negli Stati Uniti occidentali è aumentato di 13 volte negli ultimi 80 anni ed è destinato a crescere ancora di qui al 2050. Uno studio del 2016 della rivista Nature indica che questo discorso è vero a livello globale. «Contrariamente a quanto è comunemente percepito», scrivono i ricercatori, «l’esposizione dell’umanità agli incendi crescerà nel futuro principalmente per via della prevedibile espansione della popolazione in aree ad alta frequenza di incendi, piuttosto che a causa di un aumento generale della superficie bruciata».
Aiutare le future vittime di incendi ha poco a che vedere con politiche climatiche rigide e costose, al contrario ha tutto a che vedere con misure più semplici ed economiche come migliorare la gestione delle foreste e le norme edilizie. Non c’è alcuna buona ragione per terrorizzare i bambini con storie di tempeste di fuoco apocalittiche.
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