
«In Myanmar abbiamo raggiunto il punto di non ritorno»

«In Myanmar non funziona più niente. Scuole e ospedali sono chiusi. La maggior parte dei negozi ha abbassato la saracinesca. La gente ha paura, ma è soprattutto arrabbiata. Abbiamo raggiunto il punto di non ritorno». Così dichiara a tempi.it una fonte di Yangon, che chiede di restare anonima per ragioni di sicurezza. La città è la più grande del Myanmar, quella dove si sono verificati gli scontri più violenti tra civili ed esercito dopo il colpo di Stato dell’1 febbraio. Secondo i dati raccolti dall’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici (Aapp), al 15 aprile sono già 726 le vittime di Tatmdaw (le forze armate) e 3.151 i prigionieri politici.
«Io mi sono chiuso in casa»
«Da quando l’esercito ha iniziato a usare la violenza, io mi sono chiuso in casa», continua la fonte. «Tatmadaw ha occupato edifici pubblici e privati. Pochi giorni fa ha occupato una scuola per ciechi con una settantina di soldati. Ora le proteste sono diminuite, ma centinaia di giovani sono entrati nei programmi di addestramento delle milizie etniche».
A Yangon, come nel resto del paese, «internet continua a essere tagliata. Hanno completamente interrotto il broadband dei cellulari e le connessioni wireless. Resta la connessione via cavo, che pure è bloccata dalle 11 di sera fino alle 7 del mattino, ma solo i ricchi o gli uffici ce l’hanno. Il cittadino medio del Myanmar non ha più accesso alla rete. Per un certo tempo funzionava il roaming con schede thailandesi, ora hanno bloccato anche quello».
Il fallimento politico di Tatmadaw
Dopo il colpo di Stato, Tatmdaw ha tollerato le proteste popolari per un mese, poi, «vedendo che non cessavano, ha reagito nell’unico modo di cui è capace, cioè con la violenza. Ma questa violenza è la testimonianza del loro fallimento politico. Ora si è giunti a un punto di non ritorno. Non ci saranno più proteste di piazza come prima, ma neanche un’accettazione del potere militare. La stragrande maggioranza della popolazione supporta la Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi, nessuno vuole più il Tatmadaw».
Resta un grande punto interrogativo su che cosa abbia spinto l’esercito a compiere il golpe nonostante avesse già un enorme potere in Myanmar. La Costituzione del 2008, infatti, riserva il 25 per cento del Parlamento alle forze armate, che hanno diritto anche a tre ministeri chiavi. L’esercito mantiene anche il controllo dell’economia.
Le ragioni del golpe in Myanmar
«Ci sono ragioni esterne e interne che hanno portato al colpo di Stato dell’1 febbraio», spiega la nostra fonte interna al paese. «Nel primo decennio del 2000, quando Tatmadaw ha avviato la road map verso la democrazia, non c’era ancora stata la crisi finanziaria. La giunta militare voleva bilanciare l’ingerenza della Cina con gli investimenti occidentali. Questi però non sono mai arrivati. Nel secondo decennio, invece, ci sono state le crisi in Thailandia e Malesia, mentre i vertici del Tatmadaw sono finiti sono processo a livello internazionale per la crisi dei rohingya».
Se insomma Tatmadaw ha capito che non si poteva fidare dell’Occidente, ci sono anche ragioni interne che hanno portato al colpo di Stato. «L’esercito ha percepito che la sua presa sul Myanmar cominciava a scemare, dal punto di vista politico ed economico. La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le elezioni del novembre 2020. Tatmadaw sperava di ottenere un risultato decente e non la clamorosa sconfitta che ha subito. Il generale Min Aung Hlaing, che doveva lasciare la guida dell’esercito per sopraggiunti limiti di età, sperava di diventare il capo politico del paese. Ma dopo il voto, il suo progetto si è rivelato irrealizzabile e così ha optato per il golpe».
Il ruolo dei vescovi e dei buddisti
Incredibile a dirsi, Tatmadaw non si aspettava «una simile reazione al colpo di Stato». «Loro vivono in una bolla, non si rendono davvero conto di quello che succede in Myanmar e nel resto del mondo». La leadership delle proteste è stata assunta dal Crph, il Comitato che rappresenta il Parlamento che doveva insediarsi proprio l’1 febbraio. Il 16 aprile il Comitato ha nominato un governo civile alternativo a quello della giunta militare. Le cariche di presidente e consigliere di Stato restano rispettivamente a Win Myint e San Suu Kyi. Poiché questi, però, si trovano agli arresti, ad assumere la guida del governo sarà il vicepresidente, Duwa Lashi.
I vescovi si sono schierati da subito a fianco della popolazione e hanno parlato apertamente contro la repressione del governo. Ma i cristiani sono appena il 6 per cento della popolazione di 55 milioni di abitanti, a stragrande maggioranza buddisti. «Nel buddismo la leadership è diffusa», conclude la nostra fonte a Yangon. «In molte manifestazioni di piazza hanno partecipato anche monaci e monache. Il Mahana, il corpo che in qualche modo mantiene la guida dottrinale del Sangha in Myanmar, ha iniziato uno sciopero, che terminerà solo al fermarsi delle violenze. Alcuni importanti monaci buddisti si sono invece dimostrati abbastanza vicini all’esercito».
Foto Ansa
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