Il volto del contropotere

Di Rodolfo Casadei
29 Maggio 2003
Dallo scandalo Sisde al caso Enimont, la contraddizione delle “toghe rosse”: esercitano un’azione politica ma non hanno la legittimazione democratica. Seconda parte

Fra le “toghe rosse” di ieri, barricadere e scamiciate, e le “toghe rosse” di oggi, paludate e istituzionalissime, ci sono continuità e discontinuità. Le une e le altre sono cruciali per farsi un’idea della coscienza di sé che oggi prevale in una gran parte della magistratura italiana, ma noi ci limitiamo ad esaminare le prime. La fenomenologia della “toga rossa” è imperniata su tre elementi: un pregiudizio relativo alle leggi dello Stato, considerate non l’espressione della volontà popolare attraverso i suoi rappresentanti politici (Parlamento e Governo), ma uno strumento dell’egemonia borghese nella società, e quindi funzionali agli interessi della borghesia; la contestazione pubblica del sistema, delle sue leggi e delle stesse procedure giudiziarie; l’uso della funzione giudiziaria per promuovere gli interessi di classe delle classi subalterne (ovvero della sinistra politica) piegando le leggi vigenti e manipolando fin dove possibile le procedure giudiziarie. Questi tre elementi si manifestano in maniera molto vistosa negli anni ruggenti di Magistratura democratica (Md), che sono quelli fra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta. Nella mozione del congresso di Roma di Md del dicembre 1971 leggiamo: «Il nostro comune assunto teorico è che l’attuale giustizia è una giustizia di classe… obiettivo politico di Md è la realizzazione di un modello di teoria e prassi giudiziaria volto a privare la giustizia delle sue caratteristiche di strumento di tutela degli interessi delle classi dominanti per renderla funzionale alle esigenze di uguaglianza, partecipazione ed emancipazione, sociale ed economica, delle classi lavoratrici». In questa visione si ritrovavano sia la componente filo-Pci, maggioritaria in Md, con esponenti del calibro di Giancarlo Caselli, Edmondo Bruti Liberati, Elena Paciotti, ecc., sia l’ala “gruppettara” (simpatizzanti della sinistra extraparlamentare) cui appartenevano personaggi come Francesco Misiani, Francesco Greco (poi esponente di punta del pool di Milano), ecc.

La fase bohemienne di Magistratura Democratica
La contestazione pubblica del sistema da parte delle “toghe rosse” era l’elemento che più le differenziava dagli altri magistrati (che si limitavano ad applicare le leggi) ed avveniva in molti modi. I gruppettari prediligevano la partecipazione a convegni, riunioni e trasmissioni radiofoniche di Potere Operaio, Avanguardia Operaia, Radio Onda Rossa, ecc. nelle corso dei quali pronunciavano dichiarazioni incendiarie a favore dell’“abbattimento dello Stato borghese”, presîdi delle aule dove si svolgevano processi con giudici a loro sgraditi, esposti e richieste di misure disciplinari contro colleghi e superiori (iniziative che si ritorcevano contro chi le aveva promosse). Ma la maggioranza di Md, organica al Pci, pur operando con diverso stile, non è mai stata da meno, sia negli anni Settanta che Ottanta. Nel 1970 Md come tale promosse la raccolta di firme (poi fallita) per un referendum popolare per l’abolizione dei reati di opinione e sindacali, ed era l’epoca dei picchettaggi violenti nelle fabbriche e della violenza verbale (ma non solo) dell’ultrasinistra. Pci, Psiup e Psi aderirono all’iniziativa. Nel 1984 Md si battè in prima fila contro il decreto legge che stabiliva il blocco parziale del pagamento della “contingenza” nelle buste paga dei dipendenti, definendolo «una grave violazione della legalità costituzionale» e contro l’installazione dei missili nucleari a Comiso decisa dal parlamento, in risposta ai missili sovietici, bollata come «oggettivamente eversiva dell’ordinamento costituzionale». Sulle pagine di Democrazia e diritto e di Nuovasocietà Giancarlo Caselli ha continuato per anni a testimoniare che per Md i magistrati non dovevano certamente limitarsi ad applicare le leggi, ma dovevano partecipare alla trasformazione politica del paese. «La magistratura – così rifletteva il 6 luglio 1979 – viene vista come compattamente schierata accanto ai “potenti”, secondo una concezione certamente giustificata da vicende di ieri e di oggi, ma che non tiene nel giusto conto… il delinearsi, all’interno della “corporazione”, di nuove tendenze sul ruolo dei giudici nella società attuale. Mentre è necessario che queste nuove tendenze siano da tutti ben conosciute se si vuole realizzare intorno ad esse un “sostegno di massa” che le sviluppi ulteriormente. Altrimenti potrebbero essere ricacciate indietro: con evidente svantaggio per quelle forze politiche e sociali che anche dal mutato atteggiamento di una parte almeno della magistratura possono ricevere un contributo per la trasformazione in senso democratico del nostro paese». Come si nota, Caselli auspicava il cortocircuito opinione pubblica-magistrati politicizzati già tredici anni prima di Tangentopoli.

Giudici imparziali? Giudicate voi
Queste posizioni hanno anche influenzato indagini e sentenze passate per le mani delle “toghe rosse”, e questo evidentemente è il capitolo più inquietante. Scrive Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni di allora, e parlo delle mie decisioni da giudice, non abbia influito, e molto, la mia ideologia. Se proprio dovevamo condannare, condannavamo al minimo e poi mettevamo fuori». «Noi sostenevamo che nello scrivere le nostre sentenze si dovesse ritenere prevalente la Costituzione, fino al punto di disapplicare le leggi ordinarie che fossero ritenute in contrasto». Ma non sono stati soltanto i “poveracci” a beneficiare della parzialità di giudizio delle “toghe rosse”. Il caso più vistoso di potenti beneficiari della sensibilità politica dei magistrati è certamente quello dello scandalo del Sisde del 1993. Di fronte al diluvio di rivelazioni dannose per i vertici istituzionali del paese da parte del prefetto Riccardo Malpica, ex direttore del Sisde, e dei suoi uomini arrestati con accuse di peculato riguardo l’uso di fondi a loro disposizione, gli allora procuratori di Roma Vittorio Mele e Michele Coiro (Md) agirono non per far venire a galla tutta la verità, ma per insabbiarla. Come si ricorderà, Malpica e gli altri giunsero ad accusare Oscar Scalfaro e Nicola Mancino di averli spinti a mentire riguardo ai fondi extracontabilità del Sisde affinché non emergesse che anche loro ne avevano ricevuti. Quel che successe dentro alla Procura di Roma Misiani lo descrive così: «Frisani, e con lui Torri (i due Pm dell’inchiesta – ndr), era convinto che si dovesse procedere senza esitazioni nei confronti di chiunque. E i sostituti più giovani apprezzavano questo atteggiamento come un esempio di esercizio imparziale dell’azione penale, sganciato da ogni valutazione di opportunità. Si opponeva il fronte che aveva alla sua testa Magistratura democratica e i suoi esponenti di spicco all’interno del Palazzo, come Giovanni Salvi e Pietro Saviotti… La convinzione “pregiuridica” era che i cinque del Sisde fossero iscritti a un’operazione diretta a pilotare gli esiti dell’inchiesta verso un approdo politico che avrebbe trascinato le istituzioni e il paese nel marasma e nel discredito. E che pertanto l’operazione andava soffocata sul nascere». Prevalse la seconda posizione, e venne deciso di arrestare il flusso delle rivelazioni degli inquisiti sollevando un nuovo capo di imputazione contro di loro: “attentato agli organi costituzionali” art. 289 del Codice penale. La trovata funzionò, e il caso Sisde prese a sgonfiarsi. Commenta Misiani: «Con quella scelta sul 289 è indubbio che una parte di Magistratura democratica e Michele (Coiro – ndr) in primis ottennero una legittimazione politica forte da parte delle istituzioni. Avevano dimostrato – e non per opportunismo – che nel momento del bisogno la magistratura di sinistra sapeva, perché convinta, fare quadrato».
Le caratteristiche di Md che abbiamo sin qui illustrato le ritroviamo tutte nel pool di Milano negli anni di Tangentopoli e dopo: la polemica ed i giudizi distruttivi contro gli altri poteri ma anche contro altri magistrati, la manipolazione delle procedure di legge per perseguire obiettivi particolarmente “sentiti”. Si pensi al “pronunciamiento” televisivo dei magistrati del Pool nel luglio 1994 contro il decreto Biondi, all’appello contro la riforma della custodia cautelare firmato da un centinaio di Pm, alla demonizzazione della classe politica tutta intera da parte di Gherardo Colombo nella sua famosa intervista al Corriere della Sera nel 1998, e alla solidarietà espressa a lui da 60 magistrati di Milano contro l’iniziativa disciplinare che era stata aperta nei suoi riguardi. Colombo aveva detto: «…negli ultimi venti anni la storia della nostra Repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti. L’Italia la si può raccontare a partire da una parola: ricatto… Io dico che nel metabolismo politico-sociale del paese ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili e sono queste tossine che consigliano di organizzare le nuove regole della Repubblica non intorno al conflitto, ma intorno al compromesso». Si pensi a Francesco Saverio Borrelli che dopo l’arresto del giudice Squillante arriva ad attaccare la Procura di Roma in toto dichiarando: «I magistrati romani subiscono una pressione atmosferica che talvolta può essere sentita inconsapevolmente e talvolta può portare a connivenze o complicità».
Che i magistrati del Pool abbiano fatto uno strappo alla regola più di una volta non lo diciamo noi, ma protagonisti come Italo Ghitti e Francesco Misiani. Dichiarò il Gip storico di Mani Pulite, poco prima di abbandonare il suo incarico, a proposito delle continue violazioni del segreto istruttorio: «Ci fu un momento in cui ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei Pm e mi resi conto di non riporre più fiducia nella correttezza di alcuni magistrati del Pool». E a proposito del radicamento a Milano dell’inchiesta Enimont, le cose sarebbero andate così: «… ci fu una riunione presso il procuratore Mele… A parte il procuratore Volpari… tutti gli altri partecipanti ritenevano in cuor loro che dal punto di vista giuridico la questione di competenza andasse risolta a favore di Roma. Malgrado ciò, prevalse l’opinione caldeggiata da Mele, secondo la quale valeva la pena di liberarsi di un procedimento così fastidioso e scottante». Ai dubbi di Misiani Gherardo Colombo avrebbe poi risposto: «Forse non hai capito, Ciccio, ma qui non dobbiamo decidere chi è competente, ma chi può fare o non fare le inchieste. A Milano, in questo momento storico irripetibile, si possono fare. Qui a Roma no».

Giustizieri in cerca di legittimazione
In conclusione, attraverso tre decenni di emergenze (terrorismo, mafia, Tangentopoli) i magistrati italiani hanno assunto – nella concomitante crisi delle altre istituzioni – un profilo squisitamente politico, che all’inizio del periodo apparteneva soltanto alle “toghe rosse”. Non soltanto formulano giudizi di merito sulle vicende politiche e su quelle del mondo della giustizia, ma agiscono sulla base di tali valutazioni nel contesto di iniziative o di omissioni di atti giudiziari. Inevitabilmente la loro discrezionalità solleva le proteste dei politici (anche di quelli di sinistra, ma solo quando sono al governo) e le perplessità dell’opinione pubblica. Un soggetto che agisce politicamente senza risponderne a nessuno fa problema in termini di deficit democratico, perché esercita un potere che in democrazia deve avere il suggello delle urne, cosa che qui non avviene. Il gran ricorso dei magistrati del Pool di Milano alla piazza mediatica, alle dichiarazioni ed agli appelli enfatizzati da giornali e tivù, testimonia che essi stessi hanno presente il problema: cercano il consenso dell’opinione pubblica proprio perché sanno di essere un potere politico, e ambiscono alla legittimazione democratica. Per adesso sono solo un contropotere. (2/fine)

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