
“Il valore della memoria – Scritti militanti”, di Marco Tangheroni

Propongo una gita nella città più orientale d’Italia, Otranto. Entriamo nella sua Cattedrale, che custodisce un tesoro religioso e civile straordinario: i resti di una parte degli 812 Martiri che nel 1480 pagarono con la vita la fedeltà a Cristo. Ma non vorrei parlare di loro, per quanto la loro storia sia esemplare e straordinaria.
Vi invito a guardare il pavimento della Cattedrale. L’edificio è stato costruito fra il 1080 e il 1088. Il mosaico che ricopre l’intero pavimento, quindi le tre navate del tempio, è stato realizzato meno di un secolo dopo da Pantaleone, un monaco del Cenobio di Casole, che all’epoca sorgeva vicino all’abitato di Otranto.
È uno dei più grandi capolavori dell’arte musiva di ogni tempo.
Per un verso è un esempio di Biblia pauperum: da otto secoli e mezzo il fedele che entra nella Chiesa e ammira il mosaico ha una incisiva descrizione degli snodi principali dell’Antico e del Nuovo Testamento: Ezra Pound avrebbe definito le varie figure lì rappresentate “chiari immagini visive”. Troviamo così, con grande evidenza, il peccato originale, col serpente che insidia Eva, e quindi la cacciata di Eva e di Adamo dal Paradiso terrestre, Caino e Abele, Noè con la costruzione dell’Arca e il diluvio universale, fino alla Torre di Babele. E poi ritroviamo Re Salomone e la Regina di Saba, e il ciclo di Giona mangiato dal pesce.
Vi è il Giudizio Universale, con la parte a sinistra relativa al Paradiso, e dunque alla Redenzione, e quella a destra dedicata all’Inferno,e dunque alla Dannazione. Nella prima ci sono i tre Patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe, i quali, seguendo l’iconografia bizantina, accolgono gli uomini eletti il Paradiso. Nell’area della Dannazione si trovano un angelo che, tenendo la bilancia, sembra giudicare i peccati dei dannati; al di sopra di tutti, Satana che prende a sé un dannato. Un sacerdote, mons Grazio Gianfreda, scomparso da circa vent’anni, che è stato parroco della cattedrale per decenni, su di essa ha scritto numerosi volumi; ne ha dedicato uno a un esercizio: ha messo sotto le figure dell’Inferno del mosaico i versi dell’Inferno dantesco, e il risultato è che i secondi sembrano la precisa descrizione delle prime.
Per altro verso, quel mosaico è un insieme di storia, di biologia, di faunistica. Così, per la parte storica, incontriamo il ciclo ellenistico, con Alessandro Magno, il ciclo bretone, con Re Artù a cavallo di un caprone, e quello franco, con Orlando, il paladino, che diede la propria vita a Roncisvalle.
Vi è la scansione del tempo che divide l’anno solare, con dodici medaglioni che raffigurano i mesi, i segni zodiacali corrispondenti e le varie attività che l’uomo svolge sulla terra, dalla raccolta del grano alla produzione del vino, l’aratura dei terreni, il pascolo, la caccia al cinghiale, l’allevamento dei maiali; e scene di ozio, con un uomo nudo che si pulisce i piedi, oppure una donna molto elegante seduta su uno sgabello.
E una serie di figure fantastiche e simboliche, di cui noi moderni, illuminati e pseudo-acculturati non capiamo il senso, ma i contemporanei dell’autore sì: è che in quei secoli, improvvidamente definiti bui, vi era molto meno buio rispetto a oggi… Un animale con quattro corpi e una testa umana, un drago, la dea Diana che uccide un cervo con la freccia, un centauro, figure zoomorfe e antropomorfe di diverse dimensioni, una scacchiera (viene alla mente la famosa scena del Settimo Sigillo, di Bergam).
Così descritto, e senza averlo materialmente davanti, il mosaico sembra un’accozzaglia messa insieme da un monaco poco equilibrato. E invece la grande ricchezza dell’opera è la sua unitarietà. Vi è un filo conduttore, anche visivo: le scene e le figure non sono allestite in modo disordinato, ma si muovono attorno a una guida, il gigantesco Albero della vita, che attraversa l’intera navata centrale del pavimento, e che tiene tutto insieme. È come se Pantaleone avesse usato il mosaico per inserire fra i rami dell’Albero della vita le immagini della cultura del tempo, riprendendole dalla cultura romanica ma anche dall’arte decorativa bizantina e araba.
La singolarità del mosaico è che puoi leggerlo partendo dall’alto, da Adamo ed Eva, o al contrario puoi partire nel tuo percorso dalla base del tronco, per concludere con l’enorme chioma. È un albero del peccato, se letto dal presbiterio verso la navata, è albero di vita e di salvezza, se si parte dalla navata e si arriva al presbiterio: perché in questa direzione l’uomo è raffigurato nel suo sforzo di risalire il tronco per tornare all’armonia e alla perfezione perdute, passando attraverso le fatiche e le lotte nella quotidianità della storia.
Direte che ho sbagliato convegno e contesto. Non è così, non sono qui per incarico dell’Ente turismo di Otranto, e provo a giustificarlo. Non so se Marco Tangheroni nei suoi tanti giri per l’Italia e per l’Europa abbia mai visitato la Cattedrale di Otranto. Trovo però che nella sua vita egli abbia incarnato lo spirito e il senso della straordinaria opera musiva che ho provato a sintetizzarvi.
Come attesta questo volume, l’intera sua esistenza ha messo insieme, con chiarezza pari a profondità, fede e storia, ricostruzioni di vicende decisive per la civiltà occidentale, e introduzioni a luoghi di grande religiosità, aperture a viaggi audaci e curiosità in ambiti apparentemente – ma solo apparentemente – di nicchia, come il diritto della navigazione. Quest’insieme è affascinante e diretto, come le immagini del mosaico: avresti ascoltato Marco per ore, per la maestria con la quale ti introduceva a un affresco storico; e adesso continui a leggerlo senza stancarti, come permette di fare questa pubblicazione, passando da un argomento all’altro, senza che tutto questo somigli neanche lontanamente a una frammentazione o a una giustapposizione di pezzi eterogenei.
Come mai in un contemporaneo si trova questa reale unitarietà, che dà senso agli ambiti più diversi che Tangheroni ha toccato? Perché egli è uomo medievale, nel senso migliore e positivo del termine; e perché la ricchezza della sua cultura storica, e della sua cultura in assoluto, permette di riempire del medesimo fondamento ultimo tutto ciò di cui si è occupato. Egli scrive, in uno dei saggi raccolti nel libro, che “un dato di fondo che chi, come noi, è cattolico misura tutti i giorni (è che) la fede della vecchietta è spesso più integra, più piena, ha un livello di comprensione maggiore della nostra, e di quella di tanti dottori e anche di tanti vescovi”. L’insegnamento di Tangheroni, per come emerge da questi scritti, è attualissimo perché, avendo come faro la semplicità della fede della vecchietta, egli la coniuga con la capacità di far comprendere in modo chiaro scenari complessi.
Oggi di questa apertura di orizzonte vi è straordinario bisogno, ancora più di 21 anni fa, quando Marco è volato in cielo. La non comprensione dei fondamentali genera divisione non soltanto culturale, ma anche politica. Il mondo del c.d. Medio Evo, soprattutto i suoi secoli centrali, mostra unità culturale pur nella estrema varietà delle organizzazioni politiche; il paradosso della nostra epoca è che all’accentramento delle funzioni – parlo soprattutto del Continente europeo – corrisponde una spinta esistenziale centrifuga, con tanti pezzi sparsi, ciascuno dei quali tende ad andare per proprio conto, senza un filo conduttore che li leghi in modo logico e organico (come rivelano le opere di arte contemporanea).
Spero che non valutiate queste considerazioni come astratte. Esse hanno delle ricadute concrete. I due grandi conflitti che hanno lacerato il XX secolo sono nati in Europa, pur se poi hanno contagiato l’intero globo, e costituiscono la conferma più evidente di una radicale divisione. So bene che tante guerre hanno attraversato il Medioevo, ma invito alla lettura delle opere di Marco, e dei grandi medievisti, soprattutto francesi, dedicate al tema: essi insegnano le profonde differenze con le guerre combattute nel Medioevo, coi vincoli rigorosi che le regolavano, dalla individuazione dei giorni e degli orari di obbligatoria sospensione, alla garanzia della salvezza delle popolazioni civili; nulla di comparabile con quanto accaduto a partire dalla Rivoluzione francese, e soprattutto nulla che allora mettesse in discussione la comune visione del mondo.
Gli spettri del XX secolo si sono riaffacciati nel primo quarto del XXI: nel 2004, quando Tangheroni ci ha lasciato, pur se si era all’indomani dell’attacco alle Twin Towers, si era toccato il livello più basso di conflitti armati nel mondo dalla fine della Guerra Fredda (se ne calcolavano appena 17), e non vi erano guerre tra Stati. Oggi i conflitti nel mondo hanno superato i 50, e fra i principali vi è proprio una guerra tra Stati, quella tra Russia e Ucraina, che è tornata con prepotenza al centro delle discussioni e delle preoccupazioni. Questa guerra è in Europa, fra due Stati i cui popoli hanno radici cristiane. Senza conteggiare le “guerre ibride”, che pure sono sempre più offensive e vengono condotte con strumenti inimmaginabili nel 2005: pensiamo alle tecnologie cyber o allo sfruttamento delle dipendenze economiche tra Stati.
La divisione è così marcata da far invocare l’unità dell’Occidente, come non si stanca di ripetere la Presidente del Consiglio, per riavvicinare le due sponde dell’Atlantico: unità quale obiettivo da raggiungere, e non quale punto di partenza, perché non è ovvio che esso sia tale e condiviso. E non è condiviso perché il perseguimento dell’unità dell’Occidente presuppone quale dato acquisito l’unità dell’Europa: culturale prima ancora che monetaria, economica o politica.
La lezione di Tangheroni, nel farci conoscere meglio i secoli che ‘bui’ non sono stati, è di accendere un faro sulle ragioni dell’unità culturale e in senso lato politica allora esistente; di farci vincere l’illusione che l’unità – come in tanti oggi sostengono – si ritrovi nella rivendicazione dell’appagamento di desideri che vengono qualificati ‘nuovi diritti’; nel consolidamento di una architettura europea che obblighi al loro rispetto; nella marginalizzazione dei diritti antropologicamente fondati e nella estromissione dei doveri e delle responsabilità.
Per essere più esplicito: l’unità della civiltà europea non può trovarsi attorno all’imposizione del modello Ventotene, come Giorgia Meloni ha ricordato nel recente confronto in Parlamento, prima del Consiglio UE di marzo, aprendo una discussione tanto accesa quanto vera. Non può trovarsi, cioè, in un modello che ritiene che la costruzione europea derivi dalla costrizione a regole comuni, prescindendo dai contenuti. O meglio, avendo per contenuti quel rifiuto dell’antropologia cristiana che ha condotto al nichilismo.
Non sono slogan: come ha ben osservato Susanna Tamaro, il comune sentire che si è voluto e si vuole imporre col mainstream europeista sposta il confine dell’etica dal giudizio sul bene che compiamo, o dal male che evitiamo, all’impronta carbonica che lasciamo in eredità. Tra i falsi miti del Medioevo vi è la deriva apocalittica a cavallo dell’Anno Mille: ma è nulla a confronto col millenarismo apocalittico – questo non inventato – del cambiamento climatico. L’ideologia ecologista ha una evidente ricaduta nichilista: se il mantra è che, in quanto essere umano, io sono un parassita, perché devo restare in vita e avere una prospettiva?
L’ambientalismo apocalittico è proprio una delle ragioni per le quali tanti operai negli USA hanno votato per Donald Trump. E se passiamo in rassegna le altre causali, ciascuna delle quali ha provocato altrettante reazioni, dal gender imposto a scuola ai bambini alla legalizzazione delle droghe, dalla cancellazione della memoria all’aggressività della woke culture, troviamo le origini remote dell’attuale frattura interna all’Occidente. Senza con questo, ovviamente, voler giustificare tutte le singole scelte politiche ed economiche della nuova amministrazione USA. Col voto delle ultime presidenziali gli USA hanno rifiutato queste derive; mentre queste derive caratterizzano ancora non poche élite in Europa.
Va ritrovata l’unità dell’Occidente. Ma la nostra prospettiva, sulla scia dei Maestri del Medioevo cristiano, è di non fermarsi a essa. Solo un Occidente unito è in grado di dialogare, e di costruire percorsi comuni, con l’Oriente e con il Sud del mondo. L’Italia ha collocazione geografica, tradizione religiosa, e oggi anche volontà politica per promuovere ricomposizioni.
Non dico nulla, e non solo per esigenze di tempo, sulla geografia: essere al centro del Mediterraneo ha sempre caricato di responsabilità, e carica ancora oggi in questa direzione. Né sulla storia, perché ve ne è ampia trattazione – fra gli altri – negli scritti di Tangheroni.
Spendo però qualche parola sull’attuale volontà politica. L’Italia è percepita oggi quale interlocutore affidabile e autorevole dai popoli e da tante elité politiche africane – lo attestano l’accoglienza e il successo delle prime applicazione del Piano Mattei -, e al tempo stesso dalle leadership del Mediterraneo allargato, fino alle potenze del Golfo. Loro non dubitano del nostro radicamento in Occidente, ma hanno aperto o riaperto con interesse canali di interlocuzione con l’Italia, perché ritengono quest’ultima utile e importante.
L’attualità politica è in linea con la nostra tradizione religiosa: sono partito da Otranto, e a Otranto per secoli ha operato il Cenobio di Casole, cui apparteneva il Pantaleone autore del mosaico, che è stato a lungo tramite importante fra Roma e Costantinopoli, fra la cultura latina e quella greca. I suoi monaci sono stati spesso ambasciatori del Papa verso l’Imperatore d’Oriente, e viceversa. Erano nell’ultimo lembo orientale dell’Italia, e il front office dell’Oriente.
Ricordo che il ‘più Santo degli italiani e il più italiano dei Santi’ (per riprendere la definizione di Davide Rondoni), e cioè S. Francesco, non trascurò di andare non da combattente, ma pur sempre da Crociato, in Terrasanta, e di incontrare il Sultano, parlandogli lungamente di Cristo, e incontrò il profondo rispetto del suo ospite. L’ottavo centenario della morte del Santo di Assisi, che vede il Governo impegnato non soltanto in celebrazioni ma anche in opere che resteranno, permette di sottolineare questa apertura nella coerenza con l’identità di fede.
Ogni cambiamento politico ha a monte un cambio di paradigma culturale. Il nostro è quello di un ritorno a queste radici, guardando con concretezza al futuro.
Vi è un ultimo elemento che ricavo non tanto, o non soltanto, dagli scritti di Tangheroni, ma dalla sua persona: è pur esso denso di insegnamenti per la cultura e per la politica, benché riguardi la sua esperienza esistenziale. Ed è il senso del dolore.
Il dolore lancinante, continuativo, senza prospettiva di guarigione, può far impazzire; può far intravvedere quale unico esito la decisione di sottrarsi volontariamente a una esistenza di sofferenza. Non c’è seduta di psicoterapeuta che tenga; e anche qui il mainstream consolidato in Europa interviene offrendo un ‘compassionevole’ aiuto al suicidio.
Il confronto col dolore è tanto più drammatico quando, in occasione di vicende durante le quali il dolore e la morte hanno attraversato le famiglie italiane – penso alla recente pandemia -, non si è trovato di meglio dello slogan, tanto dogmatico quanto idiota, “andrà tutto bene”. Ha ragione Etty Hillesum, scrittrice olandese ebrea, morta ad Awschwitz a neanche trent’anni, quando scrive che “l’uomo occidentale non accetta il dolore come parte di questa vita: per questo non riesce mai a cavarne fuori delle forze positive”.
Due anni fa, parlando alla Pontificia Commissione biblica, Papa Francesco ricordava che davanti all’esperienza del proprio dolore “la persona è posta di fronte a un bivio: può permettere alla sofferenza di portarla al ripiegamento su di sé, fino alla disperazione e alla ribellione; oppure può accoglierla come un’occasione di crescita e di discernimento su ciò che nella vita conta veramente, fino all’incontro con Dio”.
Marco Tangheroni ha incarnato la seconda opzione. Lo attesta per un verso la serenità che ha sempre donato, nonostante tutto, tanto a chi gli era a fianco, quanto a chi lo incontrava più di rado; lo attesta, per altro verso, l’invidiabile e ineguagliabile capacità che egli aveva di restare padrone del proprio tempo, nonostante le ore da dedicare a cure sempre più invasive e fastidiose. Perché chi vive puntando a ciò che “conta veramente” viene fatto parte dal Signore di qualcosa che oggi sembra impossibile a causa della vita frenetica e angosciata dell’uomo occidentale: adoperare al meglio il tempo che è stato concesso di vivere nella storia, se lo si ritiene anche per fare una partita a carte.
La preghiera che rivolgo a Marco, uomo medievale e quindi cristiano, è di ricevere un po’ della sua capacità di cogliere il senso delle vicende della storia, e anche della nostra contemporaneità, e – come lui ha fatto con la sofferenza che ha attraversato larga parte della sua vita – di essere spinto dalla sofferenza verso l’essenziale.
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