Il superuomo o l’uomo nuovo? Ecologia dell’umano

Di Alberto Frigerio
29 Dicembre 2019
Da Nietzsche ai futuristi fino al cyborg, cosa è proprio dell'humanum? Lezione natalizia intorno alla "questione di Dio"

I. Nietzsche e il superuomo

«Io vi insegnerò cos’è il superuomo [Übermensch]. L’uomo è qualcosa che deve essere superato» [1]. L’ingiunzione nietzscheana, pronunciata dal profeta moderno Zarathustra, si radica sulla convinzione secondo cui il soggetto, privo di substratum, si costituirebbe totalmente nell’azione: «Non esiste alcun essere al di sotto del fare, dell’agire, del divenire: colui che fa non è che fittiziamente aggiunto al fare, il fare è tutto» [2].

In Nietzsche la realtà non ha un ordine che la ragione ha il compito di indagare e assecondare, la natura è priva di finalità, per questo lo spirito umano ne può disporre a piacimento. Non riconoscendo più senso e valori dati nella natura, i fini sono posti dalla volontà: «Noi abbiamo inventato il concetto di scopo: nella realtà manca lo scopo» [3].

Il filosofo tedesco sottolinea giustamente il dato della volontà, tuttavia, intende e concepisce la volontà non come facoltà che coopera con la ragione e le passioni, ma quale attore unico che guida autonomamente l’agire del soggetto. In Nietzsche la voluntas è intesa come ciò che solipsisticamente caratterizza la vita umana, che altro non è che volontà di potenza (Wille zur Macht) [4].

In tal senso, l’esortazione rivolta all’uomo ad andare oltre se stesso e superarsi, conduce alla tragica abolizione del soggetto, che non sarebbe altro che un fascio caotico di istinti, passioni, pulsioni e sensazioni, di cui la volontà disporrebbe arbitrariamente.

Il farsi e divenire del soggetto postulato da Nietzsche è inteso dalle correnti filosofiche moderne in diversi modi: auto-produzione per l’esistenzialismo, puro effetto della struttura per lo strutturalismo, esito dell’azione soggettiva posta nell’azione discorsiva del potere per il post-strutturalismo. I diversi indirizzi filosofici, che pure contengono istanze preziose, sono viziati da un approccio prassista, secondo cui il soggetto, privo di suppositum, si costituirebbe totalmente nella praxis.

La prospettiva nietzscheana, debitrice di una lunga tradizione, che ha avvio con Cartesio al principio dell’epoca moderna e che pure è ricca di elementi significativi, costituisce lo sfondo teorico entro cui si sviluppa il movimento post-umano, che contesta l’esistenza di un umano immutabile e propende per l’assoluta indistinzione tra natura e cultura, che nell’era tecnologica assumerebbe i tratti dell’artificiale. La natura umana sarebbe totalmente malleabile e la tecnologia, realizzando il cyborg, uomo-macchina in cui elementi artificiali sono innestati e integrati nel corpo umano, opererebbe il transito dall’umano al post-umano, dalla condizione umana alla condizione post-umana [5].

All’interno del filone post-umano si sviluppa la corrente trans-umana, che si caratterizza per la visione di potenziamento (enhancement) tecnologico: allungamento della vita e ricerca dell’immortalità, incremento delle capacità intellettive, aumento della funzionalità corporea, miglioramento delle modalità sensoriali, sviluppo di facoltà speciali, controllo di emozioni, umore e sofferenza e capacità di self-control.

Nella concezione post-umana e trans-umana, la specificità della condizione umana non sarebbe quella di vivere in termini culturali la comune natura umana, di cui il soggetto è chiamato ad appropriarsi responsabilmente, piuttosto, la natura sarebbe assorbita dalla cultura.

Tale visione è sottesa all’altra grande corrente di pensiero odierna, che va sotto il nome di gender theory, secondo cui la sessualità umana sarebbe assolutamente plasmabile dal soggetto e dal discorso sociale e culturale, anche grazie all’ausilio delle tecnoscienze, che consentono la manipolazione della corporeità [6]. In una recente intervista rilasciata alla rivista Famille Chrétienne, il filosofo anarchico francese Michel Onfray ha dichiarato:

«[La teoria del gender] è il prodotto di una società il cui obiettivo è condurre una guerra totale alla natura per fare in modo che tutto, proprio tutto, diventi artefatto, prodotto, oggetto, cosa, artificio, utensile, ovvero in altre parole: valore mercantile. Nell’arco di cento anni vi è la possibilità di un capitalismo integrale nel quale si produrrà tutto e dunque tutto si comprerà e tutto si venderà. La teoria di genere è una delle prime pietre di questo carcere planetario. Essa prepara il “transumano” che è l’obiettivo finale del capitalismo» [7].

La prospettiva del superuomo di Nietzsche, sottesa e sviluppata dalla visione post-umana, trans-umana e dalla teoria del gender, è tradotta in immagine dal romanzo Mafarka il futurista di Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Futurismo. La vicenda, ambientata in un’Africa immaginaria, narra di Mafarka, soldato valoroso e terribile, che dopo aver trionfato sugli avversari si ritira per dedicarsi alla creazione del figlio Gazurmah, automa e semidio dotato di ali.

Scrive Marinetti nella Dedica iniziale:

«Volete dunque strozzare il Futuro muggente e l’incalcolabile Divenire dell’uomo? In nome dell’Orgoglio umano che adoriamo, io vi annuncio prossima l’ora in cui uomini dalle tempie larghe e dal mento d’acciaio figlieranno prodigiosamente, solo con uno sforzo della loro volontà esorbitante» [8].

Il tema nietzscheano della volontà, che domina indiscriminatamente la natura, ridotta a materiale grezzo e in sé privo di senso, riecheggia nelle parole di Mafarka, che così riassume la propria visione delle cose e il proprio progetto:

«Io voglio superare me stesso… Dovete credere nella potenza assoluta e definitiva della volontà, che bisogna coltivare, intensificare. La nostra volontà deve uscire da noi, per impossessarsi della materia e modificarla a nostro capriccio. Così noi possiamo plasmare tutto ciò che ci circonda e rinnovare senza fine la faccia del mondo. Presto, se pregherete la vostra volontà, farete figli, anche voi, senza ricorrere alla vulva della donna» [9].

Il romanzo si chiude con la nascita di Gazurmah, a cui Mafarka trasferisce la propria anima con un bacio. L’eroe alato dischiude le ali, decolla, si dirige in alto, nel cielo, vince la furia dei venti e s’indirizza verso il sole per detronizzarlo e prenderne il posto.

Il punto critico, sotteso alla visione nietzscheana del superuomo, di cui gli eroi Mafarka e Gazurmah ci offrono una mirabile immagine, è la concezione di libertà, intesa come auto-determinazione assoluta, sganciata da ogni forma di alterità – natura, altri, Dio –. Il soggetto non sarebbe altro che ciò che si fa, pertanto, le scelte personali ricadrebbero nello spazio insindacabile della coscienza soggettiva.

Tale visione dell’humanum, un tempo diffusa per lo più tra filosofi e intellettuali, determina al giorno d’oggi la mentalità comune, secondo cui tutto dovrebbe essere lasciato alla misura, al sentire dell’io e delle sue voglie ed emozioni, come traspare in maniera eloquente in materia di vita e sessualità.

Tale atteggiamento è viziato da un duplice limite: 1. Il comportamento dei singoli, tanto più se normato giuridicamente, come sempre più spesso accade, interessa soggetti terzi: i figli, come nel caso dell’aborto o delle così dette famiglie arcobaleno; la società, in quanto le leggi esprimono e veicolano una certa visione di uomo, che recepisce e crea mentalità; 2. L’idea secondo cui qualunque stile di vita, purché voluto dal soggetto, darebbe forma a una vita prosperosa, è sconfessata dalla realtà, come attestano le vicende connesse alla sessualità: la precarietà e instabilità affettiva, di cui è indice il crescente tasso di rotture familiari, crea nuove forme di solitudine e sofferenza.

In realtà, la vita dell’uomo non è autonomia assoluta, ma rapporto con la corporeità, l’altro, gli altri, Dio [10]. La persona non si realizza nell’autonoma auto-costruzione di sé, ma nel vivere bene i rapporti costitutivi della vita, che dischiudono la strada alla libertà, entro cui il soggetto ha il compito di plasmare la propria vita.

La libertà non è mera scelta, bensì scelta di ciò che è bello, buono e vero: «La verità vi renderà liberi» (Gv 8,32). La scelta è solo un aspetto della libertà, come documenta, in negativo, il tema della droga – la scelta di assumere sostanze stupefacenti non costruisce bensì distrugge il soggetto –, in positivo, la vicenda amorosa – la scelta della persona amata, che implica la rinuncia delle altre, non mortifica ma realizza la libertà –.

La libertà non si realizza in quanto libertà da ogni forma di datità ma in quanto libertà di aderire alla sua natura costitutiva, come notava Benedetto XVI nel discorso al Bundestag del 2011:

«Esiste un’ecologia dell’uomo, che possiede una natura che deve rispettare e non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana» [11].

La libertà smarrita ritrova la via di casa nell’incontro con la verità, a cui l’animo umano, seppur confusamente, anela, come suggerisce sant’Agostino: «Che cosa desidera l’anima più ardentemente della verità? [Quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?]» [12].

Certo, il cammino di ricerca della verità è impervio e complesso, per via della fallibilità e limitatezza della conoscenza umana e per via della durezza del vivere, che talvolta può indurre a pensare che la verità non esista o che sia inaccessibile all’umana ragione. Per questo, scrive san Tommaso, Dio ha deciso di rivelarsi pienamente nel Figlio:

«Su ciò che intorno a Dio l’uomo può indagare con la ragione fu necessario che fosse ammaestrato dalla rivelazione divina, poiché una conoscenza razionale di Dio non sarebbe stata accessibile se non a pochi, dopo lungo tempo e non senza errori» [13].

II. Paolo e l’uomo nuovo

Il Natale, a cui ci stiamo preparando, è l’annuncio della verità che viene e traccia la via alla vita: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Fu questa l’esperienza di Paolo di Tarso, persecutore dei cristiani convertito sulla via di Damasco, che nell’incontro con Cristo annuncia la nascita dell’“uomo nuovo [kainòs ànthropos]” (Ef 4,24): «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova» (2 Cor 5,17).

Poco dopo il martirio di Stefano, a cui aveva presenziato, il Signore appare a Paolo come luce sfolgorante, gli parla e trasforma la sua vita. Lo splendore di Cristo rende cieco Paolo, affinché si accorga della sua cecità interiore nei confronti della verità che è Cristo stesso, in seguito, il sì al Signore, che si realizza nell’evento battesimale, riapre i suoi occhi e lo fa vedere in modo nuovo e vero. Nelle sue lettere indirizzate a diverse comunità cristiane, Paolo dice di essere stato afferrato da Cristo e rilegge la propria esistenza come chiamata da Dio avvenuta fin dal grembo materno per annunciare il Signore Risorto.

La predicazione paolina ruota attorno al tema della giustificazione. L’apostolo si domanda come l’uomo, proteso al bene ma incline al male, sia reso giusto: «Non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto… C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio ma il male che non voglio» (Rm 7,15.18-19). Paolo si misura con la drammatica condizione dell’uomo, teso tra bene e male, a cui aveva già dato voce il poeta latino Ovidio: «Vedo il meglio e lo approvo ma seguo il peggio [Video meliora proboque deteriora sequor]» [14]. Ricordo di quando una detenuta di Rebibbia mi domandò: «Padre Alberto, è possibile redimersi?».

Nelle sue lettere, Paolo parla della sua condotta nel giudaismo, precedente all’incontro con Cristo, e la descrive come irreprensibile e zelante nell’osservanza della Legge giudaica. Nell’incontro col Signore sulla via di Damasco si dischiude per Paolo la via nella fede in Cristo, morto e risorto per l’uomo. Per l’apostolo si pone così un dilemma tra due percorsi verso la giustizia, l’uno fondato sulle opere della Legge, l’altro sulla grazia della fede in Cristo. Paolo propende per la seconda pista, come traspare da più brani delle lettere paoline: «L’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo» (Gal 2,16); «L’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della legge» (Rm 3,28).

Paolo predica e vive la vita in Cristo, a cui per grazia si è associati nel Battesimo: «Nel Battesimo siamo stati sepolti con Cristo nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4). L’uomo è giustificato e rinasce a vita nuova per la grazia battesimale, che configura la persona a Cristo morto e risorto. Il battezzato è lui ma non è lui, è lui ma in quanto espressione del rapporto con Cristo che lo definisce: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Il Battesimo annette la persona al corpo di Cristo che è la Chiesa, di cui diviene membra viva: «Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più né Giudeo né Greco, non c’è più né schiavo né libero, non c’è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,27-28). L’essere uno in Cristo caratterizza la fisionomia della comunità. Paolo sottolinea il rilievo personale e sociale del Battesimo, che conforma la persona a Cristo annettendola al suo corpo che è la Chiesa, rendendola uno con Cristo e i fratelli. Nel Battesimo Cristo ci unisce a sé e al tempo stesso ci unisce ai fratelli e alle sorelle nella fede.

L’insegnamento paolino sulla giustificazione, operata dalla grazia battesimale e dalla partecipazione alla vita comunitaria, fu inteso da alcuni come separazione tra fede e condotta di vita, al punto che tra i cristiani di Corinto circolava l’opinione che tutto fosse lecito [15]. In realtà Paolo fa riferimento non tanto alla legge morale ma alla Torah nella sua totalità, che assieme a un nucleo etico comprende norme cultuali e alimentari, come si evince dal richiamo rivolto ai Corinzi: «Tutto è lecito! Ma non tutto giova» (1 Cor 6,12).

Paolo non opera una cesura tra fede e morale, piuttosto sottolinea il primato della grazia di Dio, che precede e interpella la libertà dell’uomo [16]. Secondo l’apostolo, l’uomo è giustificato per fede – «Giustificati dunque per la fede» (Rm 5,1) – e giudicato per le opere – «Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rm 2,6) –.

La fede che opera nella carità traspare nelle numerose esortazioni morali contenute nelle lettere paoline, che riguardano la condotta personale, comunitaria e politica, che trovano sintesi nell’invito a vivere tutta la vita per Dio, con Dio e in Dio:

«Vi esorto, fratelli, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1-2).

Come suggerisce la predicazione paolina, la vita in Cristo inaugura una nuova forma di vita, precisa e riconoscibile, visibile e inconfondibile. È quanto attesta la Lettera a Diogneto, testo anonimo, redatto nel II secolo e ritrovato casualmente nel XV secolo tra la carta usata da un pescivendolo di Costantinopoli per avvolgere il pesce, in cui l’autore paragona la vita dei cristiani per il mondo all’anima che vivifica il corpo:

«I cristiani sono indistinguibili dagli altri uomini per nazionalità e lingua. Vivono in città greche e barbare e adeguandosi ai costumi nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti e vengono condannati. Sono uccisi e riprendono a vivere. Sono poveri e fanno ricchi molti; mancano di tutto e di tutto abbondano. Sono disprezzati e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati e onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita … A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così sono i cristiani nel mondo» [17].

All’immagine di Gazurmah, superuomo che orgoglioso si protende verso il cielo per detronizzare e prendere il posto del sole, la visione cristiana preferisce quella dell’uomo nuovo, che umile vive in Cristo, Sole di giustizia, e brilla di luce riflessa: «La Chiesa rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo. Trae il proprio splendore dal Sole di giustizia, così che può dire: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20)» [18].

Note conclusive

La locandina dell’incontro di questa sera riporta l’Icaro di Matisse, che riprende il mito greco di Icaro, imprigionato col padre Dedalo nel labirinto di Creta per volere del re Minosse. Per sfuggire, i due fabbricarono ali di cera, tuttavia, il giovane si innalzò troppo in alto e le ali si sciolsero per via dell’avvicinarsi alla fonte di calore solare. Il mito greco comunica l’idea classica, greca prima e latina poi, della medietà, secondo cui la virtù si trova nel mezzo, tra un eccesso e un difetto.

L’opera di Matisse, che rappresenta la figura nera di Icaro tra stelle gialle che costellano il cielo blu, con una vivida macchia rossa sul petto, suggerisce una rilettura del mito greco, che parla della ricerca di un senso che buchi l’angustia di ciò che è finito e limitato. In questa prospettiva, il senso del mito è ambivalente: mentre richiama l’anelito che abita l’animo umano, palpitante e proteso all’illimitato, ne afferma la strutturale incompiutezza, per via della limitatezza umana. La vicenda di Icaro descrive la condizione umana, caratterizzata da un tratto paradossale e irrisolto: la persona vuole le stelle, immagine di un compimento che soddisfi la brama di Infinito, ma col proprio ingegno e le proprie forze non è in grado di perseguirle. È a questo livello che sorge e si pone la questione di Dio: “c’è Qualcuno che mi assicura da altrove?”. La sproporzione tra l’Infinito a cui la persona anela e la condizione finita che la caratterizza accende nell’animo umano il “senso religioso” [19], che è domanda di Dio.

La questione di Dio tende al giorno d’oggi a venire rimossa dal soggetto e dal discorso sociale, anche per via delle strabilianti possibilità di prolungamento della vita garantite dal progredire dell’agire/sapere tecno/scientifico, che paventa e dischiude il realizzarsi del superuomo.

In realtà, le tecnoscienze non aboliscono ma acuiscono la domanda di senso, non solo perché la costruzione del superuomo è possibilità remota che pone seri interrogativi circa la natura di questo altro essere [20], ma anche e più profondamente perché la domanda di vita è accompagnata dalla domanda sul senso della vita, che le tecnoscienze lasciano inevasa:

«Verità e certezza prodotte da me non sono fattori sufficienti perché l’io non crolli all’assalto della vanità (Qoèlet) che incalza: “A che scopo”. Io ho bisogno che mi si “assicuri” da altrove che da me. Solo un altro, diverso da me e fuori di me, può assicurarmi. E questa evidenza viene dalla potenza (riduzione) amorosa che impone la questione delle questioni: “Sono amato?” … Queste riflessioni mostrano l’autoevidenza dell’eros, cioè dell’amore in quanto dimensione costitutiva dell’umana esperienza … Gli attuali strabilianti successi delle tecnoscienze in tutti i campi non possono rimuovere questa imprescindibile questione antropologica su cui si poggia ultimamente l’annuncio dell’avvenimento di Gesù Cristo o più genericamente di un senso per vivere. Questo dato è perenne e per sé solo rende possibile, auspicabile e necessario l’annuncio» [21].

Ecco l’annuncio del Natale: la distanza siderale tra terra e cielo, che neppure il più evoluto ingegno umano è in grado di colmare, è percorsa dall’Emmanuele, il Dio con noi (Mt 1,23), che viene e ci costituisce creature nuove, che si sanno volute e scelte da Lui.


[1] F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, De Gruyter, Berlin 1968, 8.

[2] F. Nietzsche, Zur genealogie der moral, Verlag von C. G. Naumann, Leipzig 1892, 27.

[3] F. Nietzsche, Götzen-Dämmerung, Verlag von C. G. Naumann, Leipzig 1889, § 8.

La riflessione nietzscheana, che pure dice di rifarsi alla tradizione dionisiaca, contraddice il genio greco, in cui il lógos umano riconosce l’esistenza del Lógos inscritto nel reale e lo indaga: Platone, Apologia di Socrate 38a «Una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta». I greci riconoscevano l’esistenza di leggi inscritte nella natura e condannavano la tracotanza (ὕβϱις) di chi avesse preteso contravvenirle.

[4] F. Nietzsche, Der Wille zur Macht: Versuch einer Umwertung aller Werte, Knöner, Stuttgart 1959.

[5] F. Viola, “Umano e post-umano: la questione dell’identità”, in F. Russo, Natura, cultura, libertà, Armando, Roma 2010, 89-98.

[6] D. Haraway, Symians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature, Routledge, New York 1991.

[7] M. Onfray, La théorie du genre prépare le transhumain, objectif final du capitalisme, Famille Chrétienne, 16 Mai 2019.

[8] F. T. Marinetti, Mafarka il futurista, Mondadori, Milano 2003, 5.

[9] Marinetti, Mafarka il futurista, cit., 158 e 163.

[10] Le fondamentali esperienze umane attestano la strutturale dipendenza dell’uomo da altro da sé: nascita (nessuno si dà la vita, tutti la ricevono, e tale evidenza non sarebbe compromessa neppure dalla clonazione), amore (la sorte dell’innamorato “dipende” dal “sì” della persona amata), morte (neppure il suicida e il martire dispongono della vita in senso assoluto, in quanto anch’essi avrebbero dovuto morire).

[11] Benedetto XVI, Visita a Parlamento Federale, Reichstag di Berlin, 22 Settembre 2011.

Si veda: R. Spaemann, Glück und Wohlwollen. Versuch über Ethik, Klett-Cotta, Stuttgart 1989, 215 «Kultur ist humanisierte, nicht abgeschaffte Natur».

[12] Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni XXVI,5.

[13] San Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, I, q. 1, a. 1, ESD, Bologna 2012.

Nel discorso all’Areopago, Paolo annuncia il Dio ignoto ricercato dagli ateniesi come a tentoni (At 17).

[14] Ovidio, Metamorfosi VII,20-21.

[15] I testi paolini furono da alcuni travisati (2 Pt 3,16). Per questo, forse, Giacomo lì precisò, affermando che si è giustificati anche in base alle opere (Gc 2,24). Le due prospettive non sono però alternative: mentre Paolo sottolinea il primato della grazia, Giacomo evidenzia il nesso costitutivo tra fede e opere.

[16] L’attesa di un aiuto divino per operare la conversione è espressa dal poeta greco Simonide di Ceo del VI sec. a.C.: Simonide di Ceo, Lamento di Danae «O Padre Zeus, mandaci il miracolo di un cambiamento».

[17] Anonimo, Lettera a Diogneto V,1-16 e VI,1.

[18] Ambrogio, Hexameron IV,8,32.

[19] L. Giussani, Il senso religioso,Rizzoli, Milano 1997.

[20] La costruzione del superuomo, intesa come costruzione di un essere che mantiene l’unità duale di anima e corpo o di un essere che sarà solo mente connessa a una qualche forma di protesi, è ad oggi ipotesi del terzo tipo, cioè irrealizzabile. La sua eventuale riuscita aprirebbe la domanda circa la natura di tale superuomo, che pare recidere i nessi con l’uomo stesso nella prospettiva della tecnognosi.

Si veda: A. Scola, Postumanesimo e transumanesimo: provocazioni antropologiche, testo in via di pubblicazione «Postumano e transumano, senza sottovalutare gli apporti positivi che possono dare soprattutto per la salute umana, rappresentano una sorta di tecnognosi. Una pretesa non solo di penetrare tutto il mistero dell’uomo a addirittura d rimpiazzare l’uomo con un essere che, per finire, non mantiene più alcun nesso con ciò che chiamiamo uomo».

[21] A. Scola, Annunciare Cristo nel cambiamento d’epoca, Itaca, Castel Bolognese 2019, 27 e 28.

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