Il sopravvissuto. Confessioni di un killer della camorra

Di Tempi
01 Novembre 2007
I primi furti, i ricatti del clan Alfieri-Galasso, gli omicidi. Poi il 41 bis. Crimini e redenzione di Rosario Giugliano

Accogliendo volentieri la richiesta del suo autore, pubblichiamo ampi stralci della lettera del detenuto Rosario Giugliano.

Mi chiamo Rosario Giugliano originario della provincia di Napoli, detenuto dal 22 aprile 1991 in espiazione di un cumulo di pena a 30 anni. Scrivo perché sento forte la necessità di mettere nero su bianco la mia esperienza, i miei propositi, le mie speranze. Provengo da una famiglia composta adesso da mamma (mio padre è scomparso due anni fa a causa di un tumore) e da sei figli, quattro maschi e due femmine. Sono figlio di persone oneste, lavoratori instancabili, e anche i miei fratelli, tranne l’ultimo che è affetto al 100 per cento dalla sindrome di Down e necessita perciò di assistenza continua, hanno sempre lavorato e tutt’oggi lavorano. L’unico a essere stato “irrequieto” fin da bambino ero io. È quell’essere vispo e ribelle che mi ha portato, fin da bambino, a trasgredire le regole familiari: non andavo a scuola, frequentavo ragazzi più grandi di me ed ero attratto dalle “cose facili”, quelle che un comune lavoratore non poteva certo permettersi. I miei genitori fecero di tutto per capire cosa io volessi, poveretti. Presi dal lavoro quotidiano, non riuscirono a seguirmi come la situazione meritava, infatti iniziai a commettere piccoli furti insieme ai compagni.
All’età di 14 anni, siamo nel 1975, fui arrestato insieme con alcuni di questi ragazzi per furto d’auto, ed essendo io il più piccolo del gruppo mi presi la responsabilità di quanto commesso. Facemmo pochi giorni di carcere all’istituto minorile di Santa Maria Capua Vetere (Ce), ma questa esperienza, come la storia purtroppo insegna, rafforzò la nostra spavalderia giovanile, in particolar modo la mia, perché il fatto di essermi autoaccusato di quel reato era un buon biglietto da visita per l’ambiente malavitoso: avevo dimostrato che su di me si poteva contare, quindi, in seguito, insieme con altri giovani continuai a commettere illeciti.
Nel settembre del 1977 fui arrestato di nuovo e portato al carcere minorile di Nitida (Na), da cui, dopo tre mesi, proprio la notte di Natale, insieme con un altro ragazzo, scappai: una volta fuori, un po’ per sopravvivere e un po’ per incoscienza, iniziammo a commettere una serie di piccole rapine, però ad un certo punto fui convocato da un grosso esponente della malavita locale, Angelo Visciano, il quale mi disse che essendo io un ragazzo “valido” dovevo essere un suo compariello. Fuorviato al momento, non capii che quell’incontro avrebbe segnato in negativo la mia esistenza, lo realizzai solo negli anni successivi.
Iniziai perciò a commettere crimini per conto di questa persona, sino al 12 febbraio 1978, giornata in cui fui arrestato e nell’occasione fui anche ferito in più parti del corpo: dopo l’ospedale fui trasferito al carcere minorile Filangieri di Napoli dove, praticamente ogni giorno, mi vedevo notificare i mandati di cattura inerenti ai reati in precedenza commessi. A circa un mese dall’arresto, dopo che la richiesta del mio avvocato era stata accolta dal giudice istruttore, fui trasferito all’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa (Ce) ove fui sottoposto a perizia psichiatrica perché, sia per i miei genitori che per il mio avvocato, non era possibile che un ragazzino nemmeno diciassettenne avesse potuto commettere tutte quelle cose. L’esito di un primo esame, se ricordo bene, fu “incapace di intendere e di volere” e sulla base di tale accertamento fu disposta una nuova superperizia da effettuare, grazie alla consulenza di tre professori, presso l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino (Fi): l’esito fu “immaturo al momento dei fatti”, infatti al processo, oltre alla condanna, mi furono comminati sei mesi di casa di cura, da scontare alla fine della pena (come risulta nella sentenza dell’8 gennaio 1982 della Corte d’assise di Santa Maria Capua Vetere e in quella della Corte d’assise d’appello di Napoli emessa il 28 marzo 1983).
Intanto ero stato trasferito al carcere minorile di Brindisi, ove nel gennaio del 1979 compii 18 anni, e da Brindisi fui trasferito nel famigerato carcere napoletano di Poggioreale. In quel periodo storico sul territorio napoletano si era già materializzato l’avvento della “Nuova camorra” di Raffaele Cutolo e nel penitenziario partenopeo la faceva da padrone tale gruppo. Lì incontrai il Visciano il quale invece orbitava nel gruppo avverso a Cutolo, cioè nella federazione denominata “Nuova famiglia”, nello specifico nel clan “Alfieri-Galasso”. Mi prese in cella con lui e già dai primi giorni mi resi conto che mi trovavo in un vero carcere e che avevo a che fare con un ambiente molto ostile dove, nei mesi successivi, vissi una delle esperienze più negative della mia vita, cioè il sisma del 1980: dopo l’iniziale collettiva paura per il terremoto iniziarono i regolamenti di conti all’interno dei vari padiglioni, poiché per circa tre giorni l’istituto fu abbandonato dagli agenti, fu lasciato in mano alla furia omicida dei gruppi camorristi e quando gli agenti presero di nuovo il controllo trovarono tre morti ammazzati e molti altri detenuti feriti a coltellate. Affermo questo per dire che a 18-19 anni ho vissuto quella bruttissima esperienza e ho fatto, per la prima volta, veramente i conti con il fenomeno camorra.
L’amicizia con il Visciano, e in generale con il clan Alfieri Salasso, comportò pure esser preso di mira dagli associati del clan avverso. In ogni caso dopo i processi, nei quali accumulai una condanna complessiva a 20 anni, iniziai una sorta di pellegrinaggio nei penitenziari italiani, finché nel 1984 giunsi al carcere di Pianosa (Li) dove rimasi per cinque anni.
Oltre a tutto questo, però, avvenne una cosa molto positiva: nel momento stesso in cui compii diciott’anni ritrovai il rapporto con la mia famiglia, ma evidentemente anche loro percepivano che il passaggio da un carcere minorile a quello per adulti per un un ragazzino poteva comportare traumi indelebili. Resta il fatto che il legame con il passare degli anni è andato sempre crescendo, ed è stato l’elemento principale che mi ha aiutato e sollecitato a riflettere su tutti gli errori che ho commesso. Purtroppo in quel momento non mi rendevo conto che ero entrato mio malgrado in un circuito malavitoso molto pericoloso, un circolo vizioso da cui non era facile uscire, non le altre bagatelle commesse con gli altri ragazzini.
Comunque, nel maggio del 1989, avendo tenuto un comportamento corretto nei cinque anni di detenzione a Pianosa, mi fu concesso un permesso premio: per me si realizzava un sogno, dopo undici anni e sei mesi avevo la possibilità di abbracciare i miei familiari e trascorrere con loro sei giorni, cosa che di fatto non succedeva dall’età di 13 anni. A 28 anni mi veniva data la possibilità, di fatto, di conoscere nel vivere quotidiano la mia famiglia. In più avevo l’opportunità per la prima volta di stare con la mia ragazza, conosciuta tramite i miei parenti un anno prima nei tradizionali colloqui.

Il debutto davanti al boss dei boss
Il permesso non lo trascorsi al mio paese d’origine, proprio per evitare che durante quei sei giorni potessi venire a contatto con l’ambiente malavitoso cui appartenevo, ma nel comune di Valpiana, in Toscana, ospite di don Emanuele, amico di don Nando, parroco del carcere di Pianosa.
I primi giorni di permesso sono stati sicuramente i momenti più belli della mia vita, vissuti intensamente godendomi la mia famiglia: mangiare alla stessa tavola, dormire sotto lo stesso tetto, passeggiare e chiacchierare insieme, cose all’apparenza banalissime, ma per me straordinarie. Purtroppo il quinto giorno tutto questo svanì in un attimo, perché venne a farmi visita il Visciano, che nel frattempo era uscito dal carcere, con altri due componenti dell’associazione. E dopo i convenevoli, egli mi fece capire che il clan aveva bisogno del mio apporto. In pratica mi presentava il conto per tutti gli aiuti che mi aveva dato durante la detenzione, soprattutto aiuti economici e materiali: a loro dire era giunto il momento che io dimostrassi riconoscenza e fedeltà e per farlo c’era solo un modo, non rientrare in carcere! Cercai ovviamente in tutti i modi di convincere il Visciano a farmi rientrare, ma mi fu imposto che, in quel particolare momento, dovevo fare quanto loro mi chiedevano, ne valeva la salvaguardia delle persone a me care.
Io amo i miei familiari in modo morboso, perciò mai e poi mai avrei fatto scelte che potessero mettere in pericolo la loro incolumità, la loro serenità, ecco perché alla fine accettai quanto da loro imposto e non rispettai gli obblighi del permesso. I tre organizzarono la mia fuga, da quel momento divenni un latitante (mi rimanevano ancora cinque anni da scontare), e l’associazione si prese cura di me in toto, mettendomi a disposizione rifugi, soldi e tutto quello che serviva.
Una sera, solo due giorni dal mio arrivo in Campania, il Visciano mi portò in una casa ove mi fece incontrare uno dei due capi indiscussi della potente organizzazione, Carmine Alfieri, il quale si trovava in compagnia di una quindicina di suoi uomini, capizona della camorra. In quel momento storico (1989), il clan “Alfieri-Galasso”, tranne poche parti, copriva e aveva contatti con tutto il tessuto delinquenziale del territorio campano e questo già da anni, vale a dire dalla sconfitta della “nuova camorra organizzata” di Raffaele Cutolo. Fu in quella occasione che compresi realmente la forza dell’organizzazione, perché lì erano riuniti i nomi più famosi del panorama camorristico, ognuno dei presenti aveva un suo gruppo.
Dopo le formalità l’Alfieri stesso mi disse che la mia decisione (impostami) gli aveva fatto piacere e che tutti avevano apprezzato la mia “scelta” di non rientrare in carcere. Dopo questo incontro ce ne furono molti altri, tanto che nei primi mesi frequentai quasi quotidianamente il rifugio del capo (anche lui latitante, come quasi tutti i partecipanti a quel genere di appuntamenti).

Il vortice del sangue
Anche l’altro capo dell’organizzazione, Galasso Pasquale, che in quel periodo era agli arresti domiciliari nella sua residenza a Poggiomarino (ove anche io sono nato), personaggio che in questi primi mesi di latitanza incontrai un paio di volte insieme al Visciano, ha condizionato irrimediabilmente la mia esistenza. Fu infatti in quel periodo che l’Alfieri Carmine mi convocò per dirmi che per suo volere e dell’intero gruppo da quel momento dovevo seguire esclusivamente le direttive del Galasso: poiché anche io sono di Poggiomarino, dovevo seguire il Galasso Pasquale come responsabile di quel territorio. Io provai ad oppormi, presi un po’ di tempo per la decisione, anche perché mi sentivo “legato” al Visciano, comunque capozona del clan ma residente a Boscoreale.
Con il Galasso, fino a quel momento, mi ero frequentato poco, comunque mi fu detto di obbedire e mai dimenticherò le parole del Visciano: «Accetta, fai come ti dicono perché , viceversa, finisce male per entrambi!». Considerato che il Visciano non era uno che si sottometteva facilmente, anzi era un soggetto molto temuto, questo suo atteggiamento mi fece pensare molto, perciò mi adeguai e iniziai a frequentare, per meglio dire mi misi a disposizione del Galasso e del suo gruppo. Dopo pochi mesi iniziarono davvero i problemi, tutto si aggravò e le mie scelte divennero irrimediabili. In pratica mi fu chiesto di partecipare, insieme con altri, alla commissione di alcuni omicidi, essendo in corso uno scontro con un clan avverso. E, seppure io non fossi stato fino a quel momento uno stinco di santo, nemmeno avevo progettato quel genere di azioni. La strada era però decisa, mi trovai nella gravissima situazione di dover partecipare ad un agguato, cioè di contribuire a togliere la vita ad una persona. Per un attimo pensai di andarmene in Germania, dove avevo dei parenti, ma tutta la situazione si era fatta pericolosa, in primis per non mettere a repentaglio la vita dei miei familiari. Scappare voleva dire esporli a seri pericoli, la ritorsione era prevedibile e io sapevo di ragazzi che, rifiutando di mettersi alla prova, avevano fatto una brutta fine.
Mi lasciai assoggettare dall’associazione, mi convinsi che quello, anche se ero obbligato, era il mio destino: inevitabilmente dopo il primo episodio omicidario, fui risucchiato in un vortice di orrore e partecipai ad altri fatti di sangue. Mentre succedeva tutto questo ero consapevole di quanto stavo sbagliando, mi scervellavo per trovare una via d’uscita e tirarmi fuori; tuttavia, lo ribadisco, non era facile trovare la “soluzione”. Mi si potrebbe ovviamente contestare che esistono le “istituzioni” cui avrei potuto rivolgermi, ma in quelle zone, e in particolar modo in quegli anni, lo Stato, dispiace dirlo, era assente, il vero referente, per tutti, come le stesse inchieste giudiziarie hanno in seguito accertato, era il clan Alfieri-Galasso. Nulla sfuggiva loro e io non avevo ancora raggiunto la coscienza e la maturità di questi anni.
In seguito ho avuto ulteriore prova della forza, anche nelle sedi istituzionali, dell’associazione Alfieri-Galasso, perché con il fenomeno del pentitismo sono emerse tutte le collusioni a vario titolo esistenti. Siamo nell’aprile del ’91 (epoca del mio ultimo arresto) e, paradossalmente, quello è stato il momento della “liberazione”. La soluzione ricercata, l’essere chiuso in carcere, mi ha consentito di poter riflettere con maggior calma e lucidità: da quel momento in poi ho iniziato a prendere consapevolezza della mia reale volontà.

La decisione di uscire dal clan
Nel 1992 arrestarono il Galasso Pasquale, egli fu portato al carcere di Salerno, fu messo nella mia cella e io, passati i primi tempi, volli parlargli a quattr’occhi (cosa non facile, vista l’abituale corte dei miracoli che gli girava attorno) per manifestargli, con molta determinazione, la mia intenzione: una volta fuori avevo deciso di allontanarmi per sempre dall’associazione.
Con mia sorpresa lui apprezzò la mia decisione (ciò risulta anche nelle dichiarazioni da lui rese in diversi dibattimenti), però nonostante questo suo apprezzamento c’era il resto dell’associazione da convincere. Passarono altri mesi e il Galasso iniziò a collaborare (ecco perché apprezzò la mia decisione). La sua collaborazione creò tale scompiglio nelle file dell’organizzazione, e pure io ero consapevole che avrei subìto ulteriori conseguenze con la giustizia, sarei stato condannato ad altri anni di carcere. Tale fatto non modificò le mie intenzioni, non mi impedì di continuare a cercare la via d’uscita determinanante. Siamo a cavallo tra il 1993 ed il 1994. Fu allora che un altro capo dell’associazione, Angelo Moccia, mi esternò il suo proposito di chiudere con quella vita e mi informò che voleva dissociarsi: quella mi apparve subito la soluzione più appropriata per tirarmi fuori da tutto, dissociarmi voleva dire dichiarare le mie colpe, assumendomi le mie responsabilità, confessare tutti i reati da me commessi e fare chiarezza su tutto quello che era stato il mio vissuto criminale.
Era la soluzione più corretta, sia nei riguardi della legge che nei riguardi delle famiglie delle vittime, che in questo modo non sarebbero state ulteriormente mortificate. Non è stata mai mia intenzione sfuggire alle mie responsabilità, perché mi è stato sempre chiaro che avevo commesso dei crimini, perciò era giusto che io pagassi. Se avessi voluto trovare una scorciatoia per uscire subito dal carcere avrei potuto approfittare delle occasioni che mi furono offerte: più volte mi fu proposto di diventare un “collaboratore di giustizia” (chi all’epoca “gestiva” il pentimento di Galasso Pasquale cercava altri esponenti dell’associazione intenzionati a collaborare, così da poter riscontrare quanto da lui dichiarato, infatti venne a farmi visita invitandomi a quel passo, ma io non accettai mai). Non si trattò di omertà, ma di coerenza, perché ho sempre pensato non fosse giusto, per egoismo personale, scegliere di togliere serenità all’esistenza delle persone che amavo, ovverossia la mia famiglia, perché, come ho scritto, secondo il mio modo di ragionare ero l’unico responsabile delle mie disavventure ed ero io quello che doveva pagare, non loro che non avevano colpa.

Settembre 1995, la dissociazione
Di questa mia decisione parlai con i miei avvocati, anche per cercare di concretizzarla. All’inizio non erano d’accordo perché, a loro dire, la dissociazione per il crimine organizzato non era prevista a livello legislativo (lo era per il terrorismo): mi sarei probabilmente infilato in un vicolo cieco. In quel momento, però, non pensavo minimamente all’aspetto giudiziario (in altre parole ad eventuali sconti di pena, quelli che in seguito si verificarono), bensì riflettevo su come uscire da quella che ritenevo una non-vita e salvaguardare l’incolumità della mia famiglia.
Nel 1995, in accordo con i miei avvocati, scrissi una lettera alla Dda della procura di Salerno, nella persona del dottor Ennio Bonadies, allora coordinatore della stessa, invitandolo a venirmi a sentire in carcere; lo stesso fecero i miei legali. Nel mese di settembre dello stesso anno, presso la casa circondariale di Cerinola (Ce), vennero a sentirmi il dottor Bonadies, la dottoressa Giannelli, sempre della Dda di Salerno, e il maggiore Sergio Pascalli allora capo della Dia di Salerno: alla presenza degli avvocati Rodolfo Diserta ed Eduardo Serafino comunicai loro che era mia intenzione dissociarmi dall’associazione nella quale fino a quel momento avevo militato, il clan Alfieri-Galasso, e a quel punto il dottor Bonadies mi fece notare che con quella scelta non avrei usufruito di alcuno sconto di pena nei processi, poiché la legge nulla prevedeva in merito.
Io spiegai i motivi che mi avevano indotto a tale scelta, così iniziammo l’interrogatorio: confessai tutti i fatti criminosi cui avevo partecipato (ovviamente per conto dell’associazione), per molti dei quali, in quel momento, non ero nemmeno indagato e dopo quel primo interrogatorio, il mese successivo ce ne fu un secondo, essendo i fatti che mi avevano visto partecipe numerosi. Tale atteggiamento fu da me confermato davanti a tutte le autorità giudiziarie e tutti i tribunali che mi hanno giudicato, i quali in conseguenza di ciò mi hanno riconosciuto le attenuanti, in alcuni casi prevalenti sulle aggravanti, a motivo della “correttezza processuale” mantenuta.
La mia scelta, come era prevedibile, ha comportato un altro genere di problemi: molti dei miei vecchi “amici” non condivisero questa scelta. Cercarono di aggredire, in più di un’occasione, me e chi fece la mia stessa scelta. Io l’avevo messo in conto (anzi, tali reazioni mi confermavano che quella era la scelta giusta), ma in ogni caso quello che più mi premeva era che non succedesse nulla alle persone care. Nonostante quegli spiacevoli episodi la determinazione non si attenuò, proseguii per la mia starda poiché, sulla scorta degli errori commessi nel passato, non volevo permettere a chicchessia di condizionare ancora la mia vita, credevo e credo fermamente nella scelta fatta.

E alla fine arriva il carcere duro
Oggi, a distanza di tanti anni, le posso dire con immenso piacere che da molto tempo mi sento “un altro”, sono molto sereno e questa serenità la devo soprattutto alla tenacia e all’affetto dei miei familiari, i quali, dopo un primo forte momento di smarrimento (ciò che confessai li sconvolse tantissimo perché mai avrebbero immaginato simili crimini), lessero tutto quello che avevo passato con occhi diversi, compresero le ragioni del mio coinvolgimento e soprattutto apprezzarono da subito la mia volontà di uscirne fuori completamente.
Mi sono stati e mi stanno vicino, questo mi dà un’incredibile forza, mi responsabilizza, mi sollecita ad andare ancora di più avanti, specialmente da due anni a questa parte, periodo nel quale ho perso papà e momento in cui noi figli abbiamo scoperto che mamma è malata dello stesso male: allora, e non poteva essere diversamente, è sorto un ulteriore senso di responsabilità nei riguardi di tutti i miei cari. Comunque, paradossalmente, dopo aver attuato con la procura di Salerno quella decisione, il mio status di detenuto, invece che migliorare, peggiorò radicalmente, perché lo stesso ufficio mi fece applicare il regime carcerario dell’articolo 41 bis (il cosiddetto carcere duro), sicuramente perché si riteneva che le molteplici limitazioni che quel regime comporta e il contatto con una certa tipologia di detenuti (molti dei quali certamente non aprezzavano quel tipo di scelta) mi avrebbero fatto optare per il “pentitismo”. La dissociazione, in pratica, fu vista come un momento di debolezza, al contrario io la vivevo e la vivo come un segno di serietà, di forza e presa di coscienza, perché mi ha consentito di dare una svolta radicale alla mia vita e nello stesso tempo mi ha messo davanti alle mie responsabilità. Da quell’istante come detenuto iniziai l’ennesima esperienza negativa, e ciò durò 10 anni. Quel mio continuo vivere in uno stato d’ansia mi ha portato a subire diverse azioni disciplinari (causa futura della mancata concessione della liberazione anticipata), tuttavia il 17 dicembre 2005, finalmente, il 41 bis mi è stato revocato, a mio avviso principalmente per due motivi: si è preso atto dell’esito di tutti i processi che mi vedevano imputato (e in tutti la mia dissociazione è lampante ed è riconosciuta, come potrà verificare chi lo riterrà opportuno dagli atti delle sentenze) ed è intervenuta la Corte europea di Strasburgo, la quale ha sollecitato il governo italiano a porre rimedio ad una anomalia assolutamente evidente (in conseguenza di ciò il ministero della Giustizia decise di non rinnovare il provvedimento restrittivo).
Ora, finita quell’assurda esperienza, giunto in un carcere ove l’area trattamentale svolge il suo lavoro (a differenza delle sezioni da cui provengo) e dove pare si stia aprendo un percorso risocializzativo, basato sul confronto tra le parti e sulla reciprocità, la speranza è tornata a essere emozione e desiderio visibile e palpabile. Seppur ben consapevole dei tempi necessari, vedo aprirsi prospettive diverse e sono tornato, così come i miei familiari, possessore di una nuova fiducia nel futuro.
Questa nuova realtà carceraria confido possa aiutarmi, dandomi l’opportunità di partecipare ad un programma di osservazione e di inserimento sociale, a riprendere il percorso intrapreso 14 anni fa affinché i 28 anni di carcere scontati e patiti restino “il passato”, un trascorso da non dimenticare, poiché grave, ma superato dalla maturazione e da un nuovo rapporto con il senso etico delle responsabilità.
Il mio più grande augurio è quello di essere riuscito con questa mia a presentarmi, a farmi conoscere per quello che oggi sono, per quanto domani voglio essere. E sarei ancora più felice se la mia storia una volta tanto potesse essere presa d’esempio soprattutto da tanti giovani che guardano l’universo malavitoso come una possibilità di emergere. Invece vorrei dire loro che questa mia esperienza di vita è assolutamente negativa da qualsiasi punto di vista la si guardi, perché oltre a contribuire a fare del male alla società fate del male soprattutto a voi stessi e alle persone che vi vogliono bene, perché bene che vada siete candidati a trascorrere la maggior parte della vostra vita in carcere, come nel mio caso che a 46 anni ne ho trascorsi già 28 in carcere, invece la libertà è un bene così prezioso che per nessun motivo vale la pena di buttare via, per cui vivetela e non permettete a nessuno che ve la rubi.  
Biella, 23 luglio 2007

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