
Il sogno americano ricomincia da Sam
L’uomo mite Samuel Alito ce l’ha fatta. È il 110° giudice della Corte suprema degli Stati Uniti. Il secondo italiano, il quinto cattolico. Se non fosse un’espressione che evoca i fantasmi del comunismo, potremmo parlare di “rivoluzione culturale”. Cosa avrebbe spinto, altrimenti, l’Economist a dedicare la sua rubrica Lexington alla nuova “Corte papale”? Quella ridisegnata dal cristiano rinato alla fede George W. Bush è la prima Corte suprema a maggioranza cattolica nella storia degli Stati Uniti d’America: in tutto sono cinque i giudici “papisti” (Anthony Kennedy, John Roberts, Antonin Scalia, Clarence Thomas, Samuel Alito), due gli ebrei (Ruth Bad Ginsberg e Stephen Breyer) e due i protestanti (David Souter e John Paul Stevens). Per capirci, dei primi 54 giudici nominati alla Corte solo uno era cattolico. E non sono poi così lontani i tempi in cui i protestanti americani chiamavano San Pietro «la Sinagoga di Satana». Cosa è successo? Il guru democratico Arthur Schlesinger ha detto che «il pregiudizio contro la Chiesa cattolica è una delle più profonde menzogne nella storia del popolo americano». Bene, oggi non è più così. La chiave del successo politico di Bush non è tanto nell’aver portato al voto due milioni di evangelici tradizionalmente astensionisti, quanto piuttosto la conquista della maggioranza dei cattolici nel 2004. Oggi è cattolico il consigliere per la bioetica di Bush (Edmund Pellegrino), ed è cattolico, ex luterano, il suo orecchio sulla religione (Richard John Neuhaus). Quando Bush parla di «solidarietà» e «bene comune», di «vita come dono di Dio», usa un linguaggio dichiaratamente cattolico, inedito per il protestantesimo americano.
David Brooks sul New York Times recentemente ha scritto che «i liberal avevano adesivi elettorali con la scritta “metti in discussione l’autorità”, alle minoranze etniche era stato insegnato fin dalla scuola di rispettare l’autorità. Alito voleva imparare, i ricchi liberal volevano colpire duro. Alito voleva partecipare ai Rotc (corsi di reclutamento dell’esercito), i liberal di Princeton li bandirono dal campus». Le audizioni al Senato per la conferma di Alito hanno dimostrato che più che due Americhe, in America ci sono due culture. E che quella dell’avvocato italo-americano oggi è di gran lunga quella maggioritaria. Che impressione osservare la signora Alito in lacrime di fronte alla faccia di marmo, la smorfia del Massachusetts, dei senatori democratici che accusavano suo marito di seguire un’«agenda ideologica».
Il Weekly Standard scrive che il cattolicesimo è la filosofia pubblica più visibile negli Stati Uniti. Anche perché i protestanti hanno sempre “privatizzato” la fede, tradendo così il messaggio cristiano. Bush in questo è più vicino ai cattolici che non al suo gregge. Se gli evangelici forniscono l’energia politica, i cattolici sono la testa intellettuale di quello che monsignor Albacete chiama «il nuovo ecumenismo». Il New Deal di Franklin Delano Roosevelt era una coalizione religiosa, composta da ebrei, cattolici ed evangelici del Sud. Erano tutti fortemente democratici, ma a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta si sono spostati verso i repubblicani. Uno dei motivi principali è che la maggior parte degli evangelici non condivideva le battaglie liberal e democratiche su aborto e ruolo della religione nella scuola pubblica. I repubblicani, a loro volta, però, negli anni Sessanta, erano ancora per la maggior parte liberal sulle questioni sociali, e spesso non erano religiosi. Repubblicani perché conservatori sui temi economici. Oggi quell’America non c’è più. Secondo un sondaggio del Glenmary Research Centre di Cincinnati, cattolici, pentecostali e battisti macinano fedeli. Luterani, metodisti, episcopaliani e presbiteriani perdono drammaticamente consensi. Vediamo in cosa consiste tale rivoluzione.
Educazione. Storicamente le scuole pubbliche negli Stati Uniti sono state costruite in nome di un’idea “non settaria” dell’educazione, termine che di fatto ha sempre assunto il significato di educazione “non cattolica”. I cattolici hanno sempre chiesto l’aiuto statale al finanziamento delle scuole private. I protestanti si sono sempre opposti, appellandosi al principio di separazione fra Stato e Chiesa. Già intorno al 1840, in reazione all’imposizione della preghiera (protestante) collettiva nelle scuole, i vescovi americani invitavano i genitori cattolici a mandare i figli nelle scuole private. Un’iniziativa che i protestanti relegarono fra «le peggiori forme di papismo». Avanti così fino al 1947, quando la Corte suprema stabilì che sostenere con le tasse il trasporto degli studenti cattolici nelle scuole parrocchiali violava la Costituzione. La sentenza fu scritta da Hugo Black, un affiliato al Ku Klux Klan, la principale organizzazione anticattolica.
Per anni perciò i buoni-scuola sono rimasti rivendicazione esclusiva della riserva cattolica, finché i protestanti non hanno capito che le scuole pubbliche erano diventate uno strumento di secolarizzazione delle coscienze e un serbatoio del politicamente corretto. Dal 1920 al 1925, lo slogan è stato “assimilare” tutti, dai cattolici ai testimoni di Geova. Dal 1954 al 1983, sull’onda lunga della cultura rovinosa degli anni Sessanta, l’enfasi si è spostata sulle “minoranze”. Dopo il 1983, infine, si è tornati a una maggiore attenzione alla qualità dell’educazione. E il 27 giugno 2002 la Corte suprema ha stabilito che i buoni-scuola non sono incostituzionali. Una «vittoria della famiglia americana», secondo Bush. Per Ruth Bader Ginsburg, giudice liberal nominata alla Corte da Bill Clinton, una sentenza «perversa». Dietro la vittoriosa battaglia sui buoni-scuola c’è un cattolico, Rick Santorum, genitori veneti, odiato e famoso per le sue battaglie contro l’aborto e il matrimonio gay, ma anche per l’impegno a combattere la povertà. Sulla sua scrivania tiene una fotografia del settimo figlio, Gabriel, nato prematuro e morto due ore dopo il parto. Santorum è il senatore più povero degli Stati Uniti, riceve ancora un piccolo assegno dai genitori.
Aborto. Dal 1973, quando è diventato un diritto costituzionale con la sentenza Roe vs Wade, molto è cambiato, a cominciare dalla protagonista della sentenza, “Roe Jane”, alias Norma McCorvey. Si è da poco convertita al cattolicesimo e ha sposato la causa pro-life. L’aborto, insieme alla guerra sulle cellule staminali embrionali, è la causa che unisce evangelici e cattolici, i quali premono per la revisione o restrizione di una legge che ha messo il bavaglio a qualsiasi discussione e fornito un alibi ai politici per disinteressarsi del problema («c’è una sentenza», dicono ogni volta). 40 milioni gli aborti dal 1973, un milione all’anno, non è cosa da poco. John Roberts e Samuel Alito, i due cattolici scelti da Bush per la Corte, hanno detto che rispettano la sentenza Roe, ma non in modo assoluto. Cioè sono aperti a rivederla. In occasione dell’ultima marcia contro la sentenza, pochi giorni fa, Bush ha detto ai pro-life: «Voi credete come me che ogni vita umana abbia un valore, che i forti abbiano il dovere di proteggere i deboli e che le verità autoevidenti della Dichiarazione di indipendenza si applichino a tutti, non solo a chi è considerato sano o voluto o adatto. Questi princìpi ci chiamano a difendere i malati e i morenti, i disabili e le nascite difettose e tutti coloro che sono deboli e vulnerabili, in particolare i figli non nati. Cambiando le leggi possiamo cambiare la cultura». La legge come strumento morale, è questa la grande distanza che separa l’America di Alito dall’indifferenza liberal. I repubblicani hanno scommesso sui cattolici Roberts e Alito perché nei precedenti casi di revisione della legge Roe proprio i cattolici sono stati i protagonisti. E perché, a partire dagli anni di Richard Nixon, sei dei sette giudici protestanti scelti dai presidenti repubblicani avevano deluso, se non tradito, le aspettative pro-life.
Dopo l’uscita di scena del giudice dei Dieci Comandamenti, Roy Moore, 44 senatori democratici hanno posto il veto alla nomina di William Pryor a presidente della Corte d’appello federale di Alabama, Florida e Georgia. Pryor non è un battista come Moore, ma un cattolico che ha criticato duramente le sentenze abortiste della Corte suprema. Hillary Clinton lo ha vantato, quel veto, mentre l’arcivescovo di Denver, Charles Chaput, ha accusato il Campidoglio di discriminazione anticattolica. E John McCandlish Phillips, per molti anni l’unico giornalista evangelico del New York Times, sul Washington Post ha denunciato la fobia antireligiosa della stampa liberal: «In più di 50 anni non ho mai visto tanto odio e tanta paura sui grandi giornali. I lettori sono stati persuasi che viviamo in una “teocrazia”». I democratici stanno definitivamente perdendo il consenso dei cattolici. Non è un caso se oggi la moglie dell’attuale giudice capo della Corte (il cattolico Roberts) lavora in un’organizzazione pro-life.
Separazione fra Stato e Chiesa. L’espressione, usata da Thomas Jefferson e assente nella Costituzione originaria, è entrata a far parte del primo emendamento nel 1947 su indicazione della Corte suprema. Secondo il giurista dell’Università di Chicago Philip Hamburger, allo scopo di impedire ai cattolici di ottenere i fondi pubblici per le scuole private e per proteggere l’establishment protestante. Nel corso del XX secolo, contro l’autorità religiosa e morale dei cattolici, moltissimi intellettuali protestanti cominciarono a percepire la propria libertà religiosa nei termini di quella separazione. E la libertà religiosa divenne “libertà di coscienza”. Accusati di discriminare le altre denominazioni, soprattutto quelle evangeliche, i protestanti mainstream per uscire dall’angolo deviarono le accuse contro i cattolici. Oggi però l’America religiosa si è unita a questi ultimi nella critica serrata all’emblema del sogno americano, la separazione fra Stato e Chiesa, che travestita da pluralismo ha finito per alienare il sentimento religioso di gran parte del popolo.
Legge. I liberal della Corte credono, come disse Earl Warren (chief justice negli anni Sessanta), che la Costituzione sia un «testo vivente» che va interpretato secondo «gli standard in evoluzione che segnano il progresso di una società che matura». Ma il rischio, secondo i critici di questa dottrina, è che sia legge tutto ciò che esce dalla bocca dei nove alti magistrati. Capofila di questa scuola è Stephen Breyer, che parla di una «libertà militante», ma da quando William Rehnquist fu nominato giudice capo (1986), questa concezione è andata declinando. Molto più determinanti sono gli “originalisti”, guidati dal cattolico Antonin Scalia e di cui fanno parte Alito, Thomas e Roberts. Per loro la Costituzione è un documento legale e come tale vale per quel che dice. I giudici devono limitarsi all’applicazione della legge, non alla creazione di nuovi diritti, come avvenne con l’aborto. Nel caso in cui la Costituzione fosse ritenuta obsoleta spetta solo al Congresso, eletto dal popolo a differenza della Corte, il compito di emendarla. Nato nel 1936 a Trenton, nel New Jersey, in una famiglia ipercattolica, Scalia è la figura determinante nel futuro della Corte. Non a caso Alito viene soprannominato “Scalito”. Scalia frequenta la chiesa Santa Caterina da Siena a Great Falls, Virginia, la sola di rito preconciliare dell’area di Washington. Ha cinque figli, tra cui una che lavora nell’amministrazione Bush, un marine in Iraq e un prete della diocesi di Arlington. Nel 1996 ha detto che «non importa se i padri fondatori avevano un significato occulto quando adottarono quelle parole. Le faccio mie come quando loro le promulgarono al popolo degli Stati Uniti». I repubblicani hanno capito che i giuristi cattolici sono gli unici in grado di guidare la Corte in modo fedele alla storia americana. Tanto che un conservatore ha scritto che anche per la prossima nomina «faremmo meglio a pescare tra i primi cento nomi sull’elenco telefonico di Hamilton Township (la città di Alito, ndr), piuttosto che tra il corpo docente di Princeton».
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