
Il “secondo battesimo” per i trans divide gli anglicani. Lettera di protesta ai vescovi

Sono già più di 2.800 (dato aggiornato a martedì 5 febbraio) e continuano ad aumentare i firmatari della lettera aperta indirizzata ai vescovi della Chiesa d’Inghilterra per contestare l’introduzione di quello che è stato definito un “secondo battesimo” per i trans. Il riferimento è alle linee guida pubblicate nel dicembre scorso con le quali i vertici anglicani raccomandano alle parrocchie e ai preti di utilizzare la liturgia in maniera «creativa e sensibile» per celebrare la transizione di queste persone e farle sentire accolte secondo il loro nuovo sesso e «con il loro nuovo nome».
Tra i sottoscrittori del documento figurano non solo laici e fedeli “comuni”, ma anche moltissimi membri del clero (qui l’elenco completo), a conferma della possibilità che questa continua rincorsa ai “criteri del mondo”, invece di tamponare la drammatica crisi della Chiesa anglicana che dura ormai da molti anni, rischia al contrario di aggravarla. Una volta omologata completamente la fede a una cultura dominante di ispirazione non certo cristiana, che cosa resta da offrire alla gente?
QUESTIONI APERTE
Di seguito, la prima parte del testo pubblicato una decina di giorni fa:
«La disforia di genere è un’esperienza dolorosa che richiede comprensione, sostegno e compassione. Poiché riguarda un numero molto piccolo di persone, le evidenze da parte delle scienze mediche e sociali sono spesso in conflitto e di scarsa qualità. Benché la disforia di genere sia riconosciuta da decenni, negli ultimi anni sono nate in materia nuove controverse teorie a riguardo della relazione tra sesso biologico e significato sociale del genere. Tali idee sono tuttora ampiamente disputate, con buone intenzioni e riflessioni da entrambe le parti della contesa.
I numerosi genitori e insegnanti comuni che esprimono preoccupazione a proposito di queste nuove teorie non intendono provocare dolore alla piccola quota di bambini colpiti da disforia di genere; nemmeno vogliono fare del male, però, a un numero di bambini potenzialmente più grande imponendo loro idee indimostrate e non sperimentate. Considerati i molti casi nella storia della medicina in cui interventi applicati prematuramente e senza la dovuta ricerca hanno fatto più male che bene, il nostro principio guida dovrebbe essere: “Primo, non nuocere”.
È questo l’ampio dibattito medico, sociale e politico in cui i vescovi hanno introdotto la loro breve “Guida per le cerimonie di transizione di genere” [Guidance for gender transition services, ndr]. Il documento è senza dubbio retto da buone intenzioni ma manca della seria analisi teologica richiesta per affrontare le questioni filosofiche, antropologiche e sociali in gioco nel pubblico dibattito.
Noi firmatari ci impegniamo senza riserve all’accoglienza di tutti nelle nostre chiese e nelle nostre comunità di fede, affinché ognuno possa udire ed essere invitato a rispondere alla buona novella di pentimento e fede in Gesù Cristo. Crediamo però che la Guida non sia il modo giusto per farlo, visto che solleva problemi non trascurabili per il credo e la pratica della Chiesa».
LE SETTE OBIEZIONI CAPITALI
La lettera prosegue evidenziando tali «problemi», riassunti nei 7 punti sintetizzati di seguito:
1) L’istituzione di fatto di una «nuova liturgia» intesa a celebrare la transizione sessuale, nonostante le rassicurazioni in senso contrario da parte dei vescovi.
2) L’uso a sproposito delle promesse battesimali per celebrare non una nuova vita in Cristo, ma una nuova situazione venutasi a creare in forza della volontà personale.
3) L’accostamento, attraverso le letture bibliche consigliate dalle linee guida, del cambio di nome conseguente alla transizione sessuale, alla volontà di Dio che intervenendo nella storia del suo popolo cambia anche il loro nome delle persone.
4) Il rigetto «senza riflessione teologica» della differenza tra uomo e donna, che però è un elemento fondamentale del disegno e della promessa di Dio.
5) Lo spirito tutt’altro che “pastorale” delle linee guida, nonostante le intenzioni dichiarate dai vescovi: non una parola, infatti, viene spesa in merito all’«impatto spesso traumatico» delle transizioni sessuali sugli amici e le famiglie delle persone coinvolte.
6) Il mancato affronto, da parte della Chiesa, delle questioni tuttora apertissime in merito agli stessi interventi per il cambiamento del sesso: nemmeno nella comunità medica c’è consenso unanime rispetto alla transizione come soluzione alla disforia di genere.
7) Il carattere di riforma liturgica e dottrinale che caratterizza le linee guida, nonostante il fatto che la sua applicazione sia stata dichiarata non obbligatoria.
LA RICHIESTA DEI FIRMATARI
Per tutti questi motivi, gli anglicani che hanno sottoscritto la lettera chiedono ai loro pastori di «rivedere, rimandare o ritirare le linee guida finché tali domande non saranno affrontate in maniera adeguata». Come riporta l’agenzia Reuters, la Chiesa d’Inghilterra ha reso noto attraverso un portavoce che il testo dei 2.800 dissenzienti sarà preso in «seria considerazione», ribadendo tuttavia che «la Guida non è una riformulazione o una nuova posizione sulle questioni riguardanti il genere, né cambia l’insegnamento della Chiesa».
«NARRAZIONE ANTI-TRANS»
Meno garbate ed equilibrate le repliche di due sacerdoti trans coinvolti nella stesura del documento contestato. Sarah Jones dice che il dissenso proviene da una minoranza di fedeli: «È triste perché in tutto ciò ci sono vere persone transgender che vengono marginalizzate e fatte soffrire. Certa gente è molto infastidita da questo, e invece ci sarebbe ancora così tanto da fare». Più perentoria il reverendo Tina Beardsley: «Queste linee guida derivano da una decisione del sinodo generale passata con maggioranza schiacciante. Ma i firmatari della lettera non riescono ad accettarla». Secondo Beardsley, la lettera è infarcita di «narrazione anti-trans pericolosa, stigmatizzante e allarmista».
Foto anglicani al Gay pride da Shutterstock
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