Il problema dell’università è assumere i giovani, non ringiovanire i vecchi

Troppo spesso nel nostro paese le questioni più serie danno luogo a chiacchiericci sconclusionati invece che a riflessioni meditate. Tale è il caso della recente discussione sull’invecchiamento della classe docente delle università italiane. Non c’è dubbio che l’età media dei professori universitari italiani sia tra le più alte del mondo. Ma questo non è dovuto all’elevata età di pensionamento. Nei paesi in cui le università sono prevalentemente private, come negli Stati Uniti, si può mantenere un rapporto di lavoro con l’università fino alla morte, sempreché si sia in qualche modo utili: magari un professore di grande autorità ed esperienza non farà attività didattica come prima, ma potrà contribuire alla formazione dei giovani ricercatori.
Il vero problema italiano è che le università assumono giovani con il contagocce. E questo perché i massicci ope legis con cui da un trentennio vengono gestiti i passaggi in ruolo dei docenti (inclusi ope legis mascherati da concorsi), hanno favorito le posizioni acquisite e i soliti ‘precari’, invece di consentire una regolare immissione di nuove capacità attraverso verifiche appropriate. La principale responsabilità di questo andazzo più che dei ‘baroni’ (che pure di colpe non ne hanno poche) è dei sindacati, della loro demagogia e della loro insana cupidigia di stendere la mano morta su tutto il settore dell’istruzione per controllarne ogni aspetto, persino quelli culturali.
Largo ai giovani quindi, ma senza retorica giovanilista. Essere giovani non significa nulla di per sé, e non si vede perché un giovane imbecille o ignorante sia preferibile a un anziano intelligente e preparato. Non si sa se sia più esilarante o penoso lo spettacolo di certi professori ultrasessantenni (fino agli ottanta suonati) prestati alla politica o all’economia che fanno proclami sulla stampa circa la necessità di consegnare la società ai giovani. Sono manifestazioni che evocano l’immagine del decrepito Mao Tse Tung che aizzava le masse delle giovani guardie rosse cinesi contro i suoi altrettanto decrepiti avversari politici. Oppure evocano la situazione descritta da Platone nella Repubblica, in cui «il maestro ha paura degli allievi e li lusinga» e «i vecchi, abbassandosi al livello dei giovani si riempiono di facezie e smancerie, imitando i giovani per non sembrare spiacevoli e dispotici». Una situazione che, come osserva Platone, è sistematico sintomo di un imbarbarimento della società.
La necessità di immettere forze nuove nell’università, e più in generale nella società, non può avere come motivazione l’idea bislacca che le idee che portano i giovani sono intrinsecamente migliori di quelle degli anziani. In questo sono molto più sagge certe società cosiddette ‘primitive’, che coltivano un rispetto fondamentale per la funzione dell’esperienza. È un punto di vista perfettamente adeguato al problema educativo. Secondo Hannah Arendt, «il vero problema dell’educazione sta nel realizzare quella situazione conservatrice assolutamente indispensabile per ‘educare i giovani’». Sì, ‘conservatrice’. Difatti, «nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo, lasciandoli in balia di se stessi». Soltanto colui che ha radici in una solida tradizione sarà capace di fare qualcosa di veramente nuovo. La soluzione sbagliata è che dei vecchi demagoghi scaccino a calci gli anziani per consegnare tutto in mano ai giovani, lasciandoli «in balia di se stessi».

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