Il peggior nemico di Obama è Obama. Anche per il presidente, è meglio se vince Romney

Di Mattia Ferraresi
05 Novembre 2012
Aveva i numeri per una rielezione a valanga e invece è costretto a un testa a testa con un avversario leggero. Così, dopo quattro anni di governo, il presidente rischia di essere battuto dal suo stesso mito.

Da New York Essere all’altezza degli avversari è difficile, ci vogliono preparazione, freddezza e magari l’ineffabile quid che fa la differenza fra il buon giocatore e il fuoriclasse; ma quando il proprio personaggio pubblico è costruito sulle fondamenta di promesse leggendarie e aspettative ipertrofiche, e viene eletto per vox populi tedoforo di una mistica invincibile, il vero problema è essere all’altezza di se stessi. Lo sanno bene gli atleti semisconosciuti che vincono una medaglia d’oro alle Olimpiadi contro ogni pronostico. Quando si ripresentano, quattro anni dopo, nella competizione più importante, l’avversario più ostico è il proprio precedente, quel perfetto exploit che i tifosi si aspettano venga replicato e superato, il record personale che reclama di essere abbattuto.

NON VINCE ROMNEY, PERDE OBAMA. Barack Obama si trova davanti a un avversario privo di caratteri fenomenali, un manager analitico che si è fatto strada nel settore privato con il ritmo costante del passista e non ha fatto altro che riproporre lo stesso metodo in chiave politica. Mitt Romney esibisce innanzitutto il tratto della tenacia, l’abilità di avanzare senza fare il passo più lungo della gamba, addomesticando continuamente le aspettative secondo il principio di realtà, e non è un caso che l’esperienza politica che lo ha consacrato a livello nazionale sia il governo del Massachusetts, stato intimamente democratico che per essere guidato richiede compromesso, senso della realtà ed efficienza, non carismatici fuochi d’artificio. La campagna elettorale di Romney ha seguito perfettamente la dinamica che gli è congeniale: ha costruito la sua credibilità passo dopo passo, senza strepiti né fiammate, e il fatto che la gamma degli avversari alle primarie repubblicane andasse dal debole all’impresentabile ha favorito il suo incedere metodico. Pochi, dopo la resurrezione nei sondaggi, ricordano che lo sfidante è pur sempre lo stesso che quattro anni fa è stato spazzato via dal non irresistibile John McCain, a sua volta spazzato via dall’irresistibile Obama. Persino il primo dibattito presidenziale, a Denver, il “game changer” della stagione elettorale, l’evento che ha cambiato l’inerzia politica e ha messo in crisi i sondaggisti ormai certi della rielezione, è più il frutto delle manchevolezze presidenziali che dell’aggressività di Romney. Lo sfidante ha recitato con scrupolo il copione, ma non ha stupito il pubblico con effetti speciali della retorica; piuttosto è stato Obama a cercare riparo nella tana della remissività strategica, trovando invece la via per la sconfitta. L’istantanea di quella notte, la notte che ha riaperto i giochi elettorali, comunque vada martedì prossimo, non ritrae Romney vestito da lottatore di wrestling che infierisce sull’avversario a terra, piuttosto coglie la testa bassa del presidente, lo sguardo che indugia sul foglietto degli appunti ed evita lo sguardo dell’avversario. È stata una sconfitta di Obama, non una vittoria di Romney. Per questo le colonne dei giornali sono state occupate più dalla delusione dei sostenitori di Obama che dall’esultanza dei sodali di Romney: il presidente era la versione satinata di quell’immagine lucida che quattro anni fa faceva innamorare l’America e il mondo e non c’è peccato più grave, nella tavola dei valori degli obamiani, della perdita d’identità.

IL PREZZO DELLE ASPETTATIVE. Il presidente è rimasto intrappolato sotto il peso delle spettacolari aspettative suscitate quattro anni fa e via via erose dagli eventi. Ha piazzato l’asticella così in alto e l’ha varcata con una tale naturalezza che quando è tornato a prendere la rincorsa per ripetere il gesto, l’ostacolo è apparso improvvisamente insormontabile, le gambe stranamente molli, il fiato corto. L’obiezione ovvia è: durante il mandato è successo di tutto, il presidente ha dovuto gestire una crisi economica strutturale che nessuno avrebbe potuto contenere, dunque non può essere incolpato per aver governato con il freno a mano tirato dopo una campagna a tutto gas. Tutto vero, ma alzare le aspettative ha un prezzo che si risolve nel paradosso dell’inversione dei ruoli: il nemico più temibile non è più l’avversario, ma la versione precedente di te stesso, il nuovo record che era stato battuto fra gli applausi e ora è la pietra d’inciampo nella strada che porta alla seconda vittoria. Creare un leader è operazione entusiasmante, mantenerlo è un lavoro logorante, una battaglia di trincea contro quello che il mondo si aspetta. Che a riaprire la partita elettorale sia un candidato che non rimarrà nella memoria del partito repubblicano per la capacità di scaldare i cuori è soltanto l’indizio finale sul luogo in cui vada ricercata la crisi obamiana. Ha ancora le chance per essere rieletto, può contare su un collegio elettorale favorevole – è lì, e non nel voto popolare, che si trova la via per la Casa Bianca, come sa bene Al Gore –, su una macchina strategica formidabile, ha dalla sua i sondaggi tarati sugli “swing state”, gli stati che contano. Ma non ha il “momentum”, non ha la forza inerziale dell’entusiasmo, non ha in tasca il sentimento popolare, è costretto a un testa a testa quando tre mesi fa tutti gli analisti prevedevano una rielezione a valanga. Nelle ultime settimane di campagna folle in Ohio, Romney è riuscito persino a colmare il gap di entusiasmo che divide democratici e repubblicani; i comizi dello sfidante si sono trasformati da composti raduni animati da una claque ben addestrata in adunate popolari con sincera esibizione di trasporto. Obama, al contrario, è apparso sempre più stanco, persino appannato, tanto che la somma dei due dibattiti che si è aggiudicato ai punti non è paragonabile alla scorta di credibilità che lo sfidante ha messo in granaio con una singola vittoria. Obama ha cercato conforto nei dati economici che segnalano una timida accelerazione della ripresa: se la disoccupazione al 7,8 per cento permette al presidente di dire che ci sono meno disoccupati di quando ha preso il timone dell’America quattro anni fa, il tasso di crescita nel terzo trimestre, al 2 per cento (in crescita rispetto all’1,3 per cento del trimestre precedente), è pesantemente drogato dalle spese militari che il Pentagono ha ordinato durante l’estate, prima della chiusura dell’anno fiscale. Un modo per evitare di spendere meno di quanto messo a bilancio e scongiurare così la possibilità che il Congresso, l’anno prossimo, conceda una somma minore. Gli economisti dicono che senza l’aiuto della difesa la crescita del Pil sarebbe stata anemica quanto quella del trimestre precedente. I consumi sono in leggera crescita, di pari passo con la percezione dell’economia da parte degli americani e il mercato immobiliare, tornato timidamente alla vita dopo anni di agonia.

BUSH NON AVEVA TUTTI I TORTI. Si è detto dall’inizio della campagna che serviva un suicidio presidenziale per consegnare queste elezioni ai repubblicani: in assenza di catastrofi politiche o scandali conclamati, gli elettori americani tendono a rieleggere il presidente in carica e l’idea di un lavoro lasciato a metà suscita una ripugnanza fisiologica. Obama è riuscito chissà come a creare tornanti in una strada dritta. Certo, il tocco magico, brevetto datato 2008, ha raggiunto presto la data di scadenza, ma c’è un che di strutturale nel fare campagna in versi e governare in prosa, non è il primo e non sarà l’ultimo presidente americano a cambiare velocità dopo essere arrivato alla Casa Bianca, tutto sta nel non mettere in competizione il presidente con il candidato, non tentare un’improbabile gara fra il passato e il futuro. Questa dinamica ha logorato Obama, un presidente pragmatico che contiene in potenza la delusione delle frange più liberal, perché deve promettere la pace universale e poi bombardare con i droni come nessun altro ha mai fatto, deve annunciare una nuova era di giustizia sociale e contemporaneamente difendere Wall Street, deve chiudere con l’epoca buia di George W. Bush salvo poi essere costretto ad ammettere che certe trovate, tipo la prigione di Guantanamo, erano figlie della necessità, non di un capriccio guerrafondaio. E in questo stato di confusione e autosudditanza, Obama ha scelto la strategia meno redditizia per combattere il tenace avversario: invece di presentarlo come un segnavento che muove le sue convinzioni a seconda dell’opportunità politica, passando, ad esempio, dalla sponda moderatamente pro choice che gli era congeniale in Massachusetts a quella sfacciatamente pro life quando è stato il momento di superare a destra gli avversari alle primarie. Contro Obama doveva giocare la carta centrista e ha trovato soluzioni intermedie, fino al punto di ripetere con impressionante frequenza «I agree», sono d’accordo, nel terzo dibattito contro Obama, quello dedicato alla politica estera. Aveva iniziato con lo spirito del falco alimentato da un consesso di anime neoconservatrici ed è finito col discorrere di commissioni di intellettuali arabi istituite dalle Nazioni Unite per promuovere il dialogo fra culture. Ci mancava soltanto che desse a Obama del cowboy per completare il quadro di una corsa elettorale sghemba, asimmetrica. Il presidente ha scelto invece un’altra strada, quella di rappresentare l’avversario come un pericoloso esponente della destra più estrema e impresentabile, roba da far spavento non solo ai democratici ma a tutti gli uomini di buona volontà e – meravigliosa ironia – chi ha insistito per seguire questa strada è stato Bill Clinton, ex avversario di Obama diventato uno dei più preziosi asset di questa campagna. È stato lui a pronunciare il discorso di punta alla convention democratica, e sempre lui ha girato gli Stati Uniti portando il verbo del presidente, ma il suo consiglio strategico ha involontariamente gettato Obama in quella logorante corsa contro se stesso che voleva a tutti i costi evitare.
VERSO UNA VITTORIA IN TONO MINORE? Siamo volutamente oltre le soglie del paradosso: cedere la Casa Bianca all’avversario sarebbe quasi una liberazione per il presidente che si è ritrovato avviluppato nelle spire di una leadership debole, condotta dal sedile posteriore, una navigazione di cabotaggio che ha varcato a diverse riprese la soglia della delusione dei suoi più intransigenti sostenitori. Il presidente ha ancora tutto lo spazio di manovra per essere rieletto, ma anche nella migliore delle ipotesi – per lui – è condannato a una vittoria in tono minore, contrassegnata dalla rimonta metodica di un candidato che offre un programma di gestione delle emergenze economiche, non un orizzonte ideale. I democratici si chiedono come abbia fatto Obama a farsi rimontare da un tizio del genere, come sia possibile che la corsa sia così combattuta, come si fa a essere meno credibili agli occhi del paese di uno che incarna il tipo umano che ha fatto naufragare l’America. Domande retoriche che contengono giudizi opinabili, naturalmente, ma forse cadono in un errore formale, a priori: il più ostico avversario di Obama è Obama stesso, il suo standard inarrivabile, anticamera necessaria della delusione politica. Anche in caso di vittoria.

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