Il parricidio degli orfani

Di Francesco Cundari
29 Agosto 2017
La lotta politica ai tempi del divorzio breve si consuma senza complessi freudiani, in una lite familiare tra figli di nessuno

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Per i comunisti italiani il parricidio è stato a lungo poco più che una lontana astrazione. Un concetto filosofico, come il parricidio compiuto da Marx nei confronti del suo maestro Hegel, o storico-ideologico, come quello compiuto da Lenin con il «rinnegato Kautsky» all’epoca della Seconda Internazionale. Il fatto è che ai tempi del Pci i grandi padri della sinistra invecchiavano e morivano sul palco, di morte naturale, circondati dall’affetto o quanto meno dal reverenziale timore dei loro compagni, senza che a nessuno venisse neanche in mente di contestarne il ruolo (almeno in pubblico). Ai tempi della Seconda Repubblica non fanno neanche in tempo a diventare padri, perché li fanno fuori prima.

Tra i socialisti, partito di correnti sin dalla nascita, in cui la lotta interna è stata sempre il sale della battaglia politica, nessun vecchio leader ha mai potuto dormire sonni tranquilli. Con un parricidio, non a caso, cominciò anche l’ascesa di Bettino Craxi, quando nel 1976 il comitato centrale del Psi, riunito all’Hotel Midas, spodestò l’anziano segretario Francesco De Martino ed elesse a sorpresa il quarantenne Craxi alla guida del partito. Da questo punto di vista, tuttavia, il paragone con la Democrazia cristiana resta comunque irraggiungibile, per tutti i partiti di sinistra. Nel ramo dei rapporti con i propri padri, paradossalmente, la Dc era il più laico di tutti i partiti italiani (e il partito radicale di Marco Pannella il meno, se è per questo), giacché la Balena bianca di padri storici ne faceva fuori in pratica uno a congresso, e senza guardare in faccia a nessuno. Da Alcide De Gasperi ad Amintore Fanfani, passando per tutti gli altri, con l’eccezione di Giulio Andreotti e pochissimi altri highlander.

Forse la ragione della diversità comunista, almeno in questo campo, sta nel fatto che il loro unico parricidio lo commisero subito, quando Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, d’intesa con Mosca, estromisero Amadeo Bordiga dalla guida del Partito comunista d’Italia. Condannato alla damnatio memoriae Bordiga e celebrato solennemente Gramsci quale unico e solo fondatore del partito – se tralasciamo la spinosa questione dei successivi e non facili rapporti tra lo stesso Gramsci, nel frattempo incarcerato dal fascismo, e il partito che pure lo santificava – possiamo dire che il problema del parricidio non si sarebbe più presentato, fino alla fine del Pci.

Nel bel mezzo di questa parabola, però, c’è il ’68. E cos’è stato il ’68, in fondo, se non un gigantesco parricidio collettivo? Il problema è che per i giovani del movimento, comunque se la raccontino oggi, il Pci non rappresentava loro – i figli – ma il padre. Un padre ora autoritario e ostile, ora benevolo e comprensivo, più spesso tutte e due le cose insieme, ma sempre un padre.

Come ai tempi in cui Luigi Longo, il vecchio segretario che proprio nel pieno del ’68 aveva voluto incontrare una delegazione degli studenti, convocava a Botteghe Oscure, nei primissimi anni Settanta, alcuni dirigenti della federazione giovanile. Ragazzi un po’ scapestrati, tutti ovviamente trascinati e contagiati dalla frenesia di quegli anni, convinti che l’anziano leader, leggendario comandante delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna e capo partigiano in Italia, nome di battaglia Gallo, volesse affidare loro una sorta di testimone ideale in vista della rivoluzione. Si può immaginare quindi la loro sorpresa quando, dopo qualche minuto di imbarazzato silenzio, si sentirono domandare a bruciapelo: «Compagni, vi piace Orietta Berti?». Nessuno emise un fiato. E il vecchio segretario riprese: «Perché, sapete, a me piace». E battendo il tempo con una penna sul bicchiere, guardandoli negli occhi, cominciò a intonare: «Finché la barca va, lasciala andare…».

Il parricidio dei giovani comunisti nei confronti del grande padre-partito, ovviamente, avrebbe dovuto attendere ancora. Del resto, il comandante Gallo aveva perfettamente ragione: la grande barca del Pci, in quegli anni tormentati, andava che era una bellezza, e non c’era ragione di aprire falle nello scafo con inutili conflitti, estremismi e sparate rivoluzionarie.

I guai sarebbero arrivati dopo, quando cioè a capotavola si sarebbe seduta proprio la generazione di quei giovani comunisti che in un modo o nell’altro, quasi sempre con un piede dentro e uno fuori, il Sessantotto lo avevano fatto. Abituati sin da allora a uno sdoppiamento che forse non era solo tattico – una faccia per le agitate assemblee studentesche e un’altra per le austere riunioni di partito – in un gioco di ruolo da cui non sarebbero più usciti.

Staccare la spina al nonno
La stessa fine del Pci, arrivata già fuori tempo massimo e trascinatasi per quasi due anni di agonia tra la svolta della Bolognina (1989) e ben due congressi (uno per decidere il se, nel 1990, l’altro per decidere il come, nel 1991), più che un sanguinoso e catartico parricidio, è stata un’eutanasia. O forse semplicemente la tardiva e sofferta rinuncia a un accanimento terapeutico già durato fin troppo. Più che uccidere il padre, insomma, l’ultimo gruppo dirigente del Pci si è limitato a staccare la spina al nonno.

La sua ombra tuttavia ha continuato a proiettarsi a lungo sui litigiosi eredi. E la loro storia è stata da allora in poi una storia di rivalità tra fratelli, con alcune grandi costanti: D’Alema-Occhetto, D’Alema-Veltroni, D’Alema-Prodi, D’Alema-Renzi. E con alcune significative varianti: Renzi-Bersani, Renzi-Letta, Renzi-Prodi…

La stessa scalata renziana nel Pd, a ben vedere, non è stata un parricidio, perché dinanzi a sé l’ambizioso sindaco di Firenze non si è trovato alcun padre nobile, ma solo una selva di vecche zie, gelose e timorose l’una dell’altra. In quella grande tragedia che è stata per molti la sua ascesa al vertice, la parte che spetta a Renzi non è dunque quella dell’infido Claudio, il vile fratello che nell’Amleto avvelena il legittimo re di Danimarca per prenderne il posto. Ma semmai quella di Fortebraccio, il nemico che irrompe in scena quando l’intera corte si è ormai fatta fuori da sola.

In una casa Merlin o al manicomio
Per lo psicanalista Massimo Recalcati, responsabile della scuola di formazione del Pd da lui intitolata a Pier Paolo Pasolini, la lotta tra Renzi e il vecchio gruppo dirigente del centrosinistra è un «dramma edipico» rovesciato. Certo sono lontani i tempi di Palmiro Togliatti, che al solo sentire accostare psicanalisi e politica, non esitava a sentenziare: «Quando si parte da Freud, si può andare a finire molto lontano, in una casa Merlin o in un manicomio, ma non certo a Carlo Marx e alla nostra dura lotta socialista». Eppure, cosa c’è di più freudiano e insieme di più marxista della vecchia immagine del morto che afferra il vivo? Recalcati dice che la colpa di Renzi è di aver messo la sinistra di fronte al suo stesso cadavere. Ma forse sarebbe più esatto dire che è il cadavere di una certa vecchia sinistra che da anni lo insegue disperatamente, per impedire alla nuova di nascere.

O forse invece dovremmo dire semplicemente che l’ascesa di Renzi, con tutto quel che ne è seguito, è stata un parricidio senza padri. Perfettamente speculare alle tante scissioni senza partito e senza passione che l’hanno accompagnata. È la lotta politica ai tempi del divorzio breve: ormai anche i padri storici si possono affittare per il tempo di una convention o di un’intervista sui giornali, le genealogie storiche si possono reinventare in pochi minuti, tutto si è in qualche modo mercificato e standardizzato. Vale per i sentimenti e vale anche per i risentimenti, innanzi tutto a sinistra. Una sinistra senza più padri da contestare, e tanto meno da uccidere, ma solo una miriade di fratelli con cui litigare in eterno, con quell’accanimento che nasce proprio dalla comune consapevolezza d’esser tutti quanti, ormai, figli di nessuno. Almeno fino a quando un nuovo patriarca non si farà carico di chiudere questa infinita stagione di lotte fratricide, per dare inizio a una nuova storia. O magari, chissà, per ridare vita all’antica. Ammesso e non concesso che nel frattempo riesca a sopravvivere.

@peraltro

Foto Ansa

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