
Il Papa che ha sempre difeso ciò che sanno i semplici: il cristianesimo è amicizia

«Il semplice è il vero ed il vero è semplice», diceva Benedetto XVI, il Papa teologo che per tutta la vita ha custodito il bene principale di cui è responsabile la Chiesa: la fede dei semplici. Lui, il Papa pensatore, il Papa filosofo, il Papa cui Giovanni Paolo II aveva affidato la custodia dell’ortodossia, il Papa delle encicliche spettacolari e delle sfide ai celebrati intellettuali della nostra età, per dire cosa lo avesse convinto della bontà razionale e profetica del cristianesimo, forniva questa spiegazione: «Non saprei individuare una prova della verità della fede più convincente della schietta umanità che la fede ha fatto maturare nei miei genitori».
Un avvenimento, non una predica. Un fatto, non un sistema di valori. Una schietta umanità, non una sofisticata teoria. Benedetto XVI è stato il Papa che ha illustrato con maggior forza e capacità espressiva cosa sia il cuore della fede: non un sentimento, non un’aspirazione, non un “credere di credere”, ma l’approdo felice di una ragione che riconosce che qualcosa di eccezionale è accaduto dentro la vita. E continua ad accadere ogni giorno.
Avevano paura di lui
Amava Mozart e Beethoven e odiava i sofismi, le chiacchiere circonvolute dei teologi atei e dei teologi cattolici per i quali il verbo non si è fatto carne ma carta, argomento di conversazione anziché di conversione, vaniloquio da dibattito davanti a una claque disinteressata. Puntava sempre dritto al cuore della faccenda, a quel Gesù di Nazaret che sapeva descrivere come unica speranza e certezza di un mondo confuso e distratto. Benedetto XVI aveva la qualità evangelica del parlare chiaro, la virtù del profeta che sa cosa accadrà perché riconosce senza inganni cosa è già vero ora.
Per questo lo odiavano, oh come lo odiavano. E per questo dovevano depotenziarlo, fraintenderlo, censurarlo ogni volta che metteva al muro le loro responsabilità di ingannatori del popolo semplice. Dovevano accusarlo con parola automatiche e irriflesse di essere un oscurantista; dovevano chiudergli, in nome della tolleranza (che paradosso), le porte dell’Università Sapienza; dovevano tacciarlo di aver coperto i pedofili – lui! che tanto si era dato da fare per togliere la sporcizia dalla Chiesa –; dovevano stravolgere il suo discorso a Ratisbona per non ammettere di non voler fare davvero i conti con l’islam; dovevano, in definitiva, mascherare con la menzogna ogni sua parola, ogni suo discorso, ogni suo gesto (compresa la sua inaudita rinuncia al soglio petrino) perché ne avevano paura, una paura tremenda. La fifa bestiale di ammettere che aveva ragione lui, che usava la ragione meglio di loro.
Un giogo leggero
Con coraggio leonino il professor Ratzinger ha messo a nudo la mentalità mondana e l’astrattezza clericale che da duecento anni ha relegato Dio a motore immobile nell’iperuranio delle idee, riducendo il mondo a bunker «senza finestre», Adamo a scimmia stupida e la vita a procedura manipolabile a seconda dei propri “nobili” scopi o delle proprie mortifere insofferenze. Per questo lo odiavano, perché aveva il coraggio di sferzare l’Occidente dimentico di sé e l’Europa esausta e senza radici, ricordando loro che «chi tenta di sopprimere la dimensione del mistero ultimo, cade in preda a letture totalitarie». Oscurando il riferimento a Dio, diceva Benedetto XVI, si oscura qualsiasi orizzonte etico e si lascia spazio al relativismo e ad una concezione farlocca della libertà, che, anziché farci amare di più, ci rende schiavi di idoli che hanno bocche ma non parlano, hanno occhi ma non vedono, hanno orecchi ma non odono.
Ma più di ogni altra cosa, semplice e vera, questo Papa che abbiamo avuto la ventura di essere nostro contemporaneo ci ha insegnato nella sua ultima lettera che il cristianesimo è l’amicizia con «il giudice della vita» e con coloro che si riconoscono suoi discepoli, oggi, all’alba del Duemilaventitré. «Nell’amicizia la Sua volontà diventa la mia», è un «giogo leggero» perché «amore significa abbandonarsi, donarsi; reca in sé il segno della croce».
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