
Il mondo non capirà papa Francesco finché avrà schifo della sua “comunità”
Il nostro è un mondo dove gli uomini sono soli. Soli davanti ai problemi così come davanti agli indici di Borsa che hanno lo stesso potere di vita o di morte che aveva l’indice di Nerone. Potere irresistibile. E all’apparenza soverchiante anche il piccolo gesto di un vescovo indiano che, postosi alla testa di un corteo di “paria” (i cosiddetti “intoccabili”, collocati nel punto più basso della divisione in caste della società induista), è stato pestato e arrestato dalla polizia.
Ecco cosa ci fa una Chiesa cattolica in questo mondo. Non fa, come vorrebbe la cultura dominante, il cagnolino di compagnia – per dirla con il “vangelo” di un noto cantautore – al «credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa». Fa, invece, compagnia e da vincastro alla ricerca di felicità di ogni uomo.
Di questa pregnanza c’è segno potente nel papato di Francesco fin dalle motivazioni che egli diede alla scelta di alloggiare alla camera 201. «Per me davvero fondamentale è la comunità» disse alla Civiltà Cattolica. «Ho bisogno di vivere la mia vita insieme agli altri».
È vero, ammoniva Eliot, «non esiste vita se non nella comunità. E non esiste comunità se non è vissuta in lode di Dio». Forse, è proprio da questa tendenza alla “lode di Dio senza comunità” (così consona a una cultura dominante individualista e narcisista) che Francesco vuole metterci in guardia anche con gesti che hanno così vasta risonanza perché in essi tutti possiamo riconoscere una concreta compagnia da uomo tra gli uomini. Giacché quello che Cristo fece tra gli uomini e concretamente fece dando se stesso fino alla morte, fu precisamente dare se stesso in una comunità di uomini che arriva fino ai “paria” di oggi.
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