Terra di nessuno

Il mio «porto sepolto»

Articolo tratto dal numero di settembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Quando i giorni si fanno difficili, e il mondo attorno mi pare prosciugato di senso e di affetti, quasi un cratere lunare in cui sono sola e straniera, allora mi sdraio, la camera buia, e mi chiudo in una mia cella segreta. Scendo nel pozzo della memoria, profondamente, fendendo gli anni contromano. Ed ecco sono tornata al mio «porto sepolto», come recita una poesia di Ungaretti. Serbatoio di ricordi, ombre, profumi. Angolo d’infanzia segreta e di pace, dove mi rifugiavo spesso, come un piccolo animale cerca la sua tana.

Era il fienile di una vecchia casa di montagna, nelle Dolomiti, dove d’estate andavamo in vacanza. Ci si entrava da uno stanzino esposto a nord, sempre freddo, dove si custodivano le mele. E quel profumo di mela acerba era l’odore della mia evasione. Perché evasione era: dal mondo degli altri. Avevo otto anni e spesso aprivo la piccola porta bianca che dava nel fienile. Il fienile era molto grande, intrisi i vecchi legni per sempre dell’essenza verde del fieno. Gli assiti, distanziati fra loro di un paio di centimetri, lasciavano filtrare dall’esterno una luce gentile, simile a quella di una chiesa. Come i miei occhi si abituavano a quella penombra individuavo nell’ampio stanzone una folla di oggetti singolari: carri da fieno, slitte, misteriosi bauli, forconi, rastrelli. Culle, antichissimi sci con le pelli di foca, e un arcolaio la cui ruota ancora girava con un gemito gracile, come la voce di un’esile strega. Nell’ombra polverosa ogni tanto un fruscio: un gatto, o un topo. O tarli, forse, quelli che polverizzavano metodici le ante di antiche credenze abbandonate.

Mi sedevo dove capitava e mi guardavo attorno, cercando il punto di massima attrazione. Le slitte di legno, ecco: ce n’erano di piccole e di grandi, su cui si stava perfino in dieci. Si andava, mi aveva detto l’anziana padrona di casa, da ragazzi a Messa su quella slitta insieme, la notte di Natale. Allora io accarezzando i pattini di ferro arrugginito chiedevo alla slitta: raccontami. E senza fatica mi immaginavo quindi quei prati attorno candidi di neve, e la discesa verso il centro del paese ancora costeggiata dal bosco.

Notte era, una gelida notte di Natale, il cielo lucente di stelle bianche. Una banda di ragazzi e bambini festosi si ammucchiavano sulla slitta, spingendosi, le torce accese in mano, gridando di partire: che era tardi e la Messa in chiesa stava per cominciare. Ma tutto questo lo vociavano in un dialetto di montagna che io stentavo a capire. Ed erano vestiti poveramente di maglie fatte in casa, e tabarri ricavati da vecchie coperte, le mani gonfie di geloni. E mi pareva poi di vedere la slitta carica che prendeva velocità verso valle, in un’eco di risate e canzoni che s’affievoliva e infine affondava nella notte.

Ecco, la slitta mi aveva raccontato. E quelle falci arrugginite, in fila come soldati nella rastrelliera? Dicevano di una grande famiglia, di tanti fratelli e sorelle impegnati nella fienagione: li vedevo nei campi, a fine giugno, quando l’erba in quella valle era alta un metro, e rigogliosa di fiori. Si disponevano la mattina presto, in schiera, pronti a procedere, con rigore ancora austroungarico, al taglio. Vedevo con dolore cadere le margherite e i ranuncoli sotto la falce: però il profumo dell’erba appena mietuta, della sua linfa verde, mi inebriava.

Ancora nel mio fienile, a esaminare i grossi mastelli di legno dove si lavavano i panni: lisi, i bordi, di anni di insaponature. Quante mani, quante mani hanno toccato questi oggetti, mi dicevo, e dove siete ora tutti?

E mi era dolce la compagnia dei morti, e non paurosa, giacché ero istintivamente certa che loro erano vivi, altrove, e volentieri parlavano con me, silenziosa bambina. Erano ore delle più belle mai vissute: sola, ma come maternamente accompagnata.

Ed ecco adesso, quando come dicevo le giornate invecchiando si fanno difficili e un poco, appena, a volte sotto sotto disperate, io traggo energia dal mio pozzo segreto, dal mondo umbratile e dolce in cui, bambina, mi rifugiavo. Il porto sepolto, dice Ungaretti, «con il suo inesauribile segreto». Sento la ruota dell’arcolaio, e l’urto delle betulle sottili da fuori, sugli assiti, e il tamburellio veloce della pioggia sul tetto di lamiera. Eccolo il mio porto sepolto, c’è ancora. Ci attingo pace e stupore, come una volta. Me ne sto nella mia cella e mi rinfranco della mia solitudine da straniera. Attorno a me c’è ancora quell’ universo di legni bruni e ombre, raggi di sole, fieno, fruscii. E quanto vivo era, e quanto il suo ricordo mi ricrea.

La memoria ci aiuta nella speranza, ha detto Benedetto XVI. Certa memoria felice è come un pozzo che, mentre fuori la terra è arida e la strada sembra perduta, a un tocco spilla acqua fresca e buona.

Foto pxhere.com

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