Il mercato dei trimalcioni

Di Giorgio Vittadini
17 Luglio 2003
Immaginiamoci una piazza come quella di Siena dove i commercianti espongono le loro merci avendo ognuno il suo spazio...

Il professor Marco Martini usava un’immagine molto suggestiva per esprimere la sua idea di mercato. Immaginiamoci una piazza come quella di Siena dove i commercianti espongono le loro merci avendo ognuno il suo spazio, risultando concorrenziali esclusivamente per il rapporto qualità-prezzo della loro merce. È questo il vero mercato, che valorizza la capacità di produrre e l’inventiva dell’uomo. Che differenza con i lacci e laccioli, con i privilegi, con lo Stato mascherato da privato e il privato mascherato da Stato che paralizza parte dell’economia del nostro Paese. In questo mercato vero si capisce che nessuno può morire nel nome di una competizione e che la scomparsa di ciascuno è una perdita per l’intera società. D’altra parte, la competizione non può trasformarsi in un sistema di rendite corporative, come separé costruiti sulla piazza a discapito di altri. È proprio il concetto di fiera di opere, di unità dei diversi, di integrazione dei simili, di dimensione aziendale che può essere la somma di tanti piccoli uniti come nei supermercati fatti di piccole botteghe. Sono caratteristiche di questo vero mercato l’educazione al rischio, alla capacità imprenditoriale, alla creatività, a un profitto a misura del valore e non scopo di se stesso, dove aggregazioni di realtà di diverso tipo aiutano lo sviluppo di tutti. Distretti e associazioni industriali, corporazioni di arti e mestieri, movimenti economici e sociali, sono i fermenti di una società caratterizzata da questo vero mercato. Ad esempio, in un distretto tanti piccoli produttori tendono a integrarsi piuttosto che a elidersi; in un’associazione soggetti diversi creano servizi comuni; in un movimento la forza ideale è fattore di aiuto e sviluppo non solo per sè ma anche per gli altri. In questo mercato l’esistenza di realtà pivot diventa fattore di sviluppo e non di detrimento per gli altri perché crea visibilità, sviluppo, innovazione e indotto per tutti. È utopia? No, gran parte dell’imprenditoria italiana è nata così, figlia dello stupore, dell’attenzione alla realtà, della capacità di sacrificio e dell’apertura agli altri (lavoratori, consumatori, realtà sociali). La degenerazione statalistico-pauperistica, manichea e giustizialista, propria di parte della mentalità cattolica, è uno dei motivi per cui a questo mercato si è sostituito uno Stato invadente, immanicato con lobby di funzionari, impiegati di partito, pasionarie intrise di furore ideologico. Proprio questi sono i peggiori alleati di quei liberisti senza arte né parte, senza cultura, senza radici in una tradizione di piazza. Gli opposti estremismi si oppongono al mercato e infatti trovano nel partito la loro vera espressione che cambia l’economia col potere, che trasforma aziende quasi in fallimento in aziende che fanno fortuna. Mercato di gente operosa oppure palazzi oscuri popolati da trimalcioni amanti del lusso e dell’evasione e da baccanti assetate di sangue? Questo è il dilemma della società italiana.

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