Il meglio della Biennale sa solo dire con Fabre “grande è la potenza del nulla”

Di Rodolfo Casadei
30 Maggio 2011
La Pietas dello scultore fiammingo Jan Fabre raffigura la Madonna bambina che diventa uno scheletro il cui teschio spunta da sotto il velo. Il corpo morto ma intatto di Cristo sulle di lei ginocchia diventa il cadavere dell'artista stesso, in via di decomposizione. Perché bisogna per forza dissacrare Michelangelo?

«La dissacrazione è una specie di difesa dal sacro, un tentativo di distruggere le sue pretese. Nella presenza di cose sacre le nostre esistenze sono giudicate, e per sfuggire a quel giudizio noi distruggiamo la cosa che sembra giudicarci». La citazione da Beauty di Roger Scruton è l’epitaffio perfetto per la Pietas dello scultore fiammingo Jan Fabre, la rivisitazione dissacratoria e blasfema della Pietà di Michelangelo. E per molti altri exploit di arte contemporanea.

Nell’opera esposta alla Biennale di Venezia, la Madonna bambina diventa uno scheletro il cui teschio spunta da sotto il velo, il corpo morto ma intatto di Cristo sulle di lei ginocchia diventa il cadavere dell’artista stesso, in via di decomposizione. La scultura è un monumento alla negazione assoluta della possibilità della Resurrezione. Fabre/Cristo è morto per sempre perché la fede incarnata – Maria – è morta prima di lui.

Fabre nega ogni intenzione blasfema, e spiega che ha voluto immortalare il desiderio di una madre di sostituirsi al figlio morto: la madre “assorbe” in se stessa la morte del figlio per tentare di ridargli vita. Inutilmente. Già, ma perché sfigurare la Pietà di Michelangelo, una delle opere più belle e commoventi di tutti i tempi, uno dei momenti più alti di incontro fra l’umano e il divino nell’arte, per esprimere questo concetto? La risposta sta, fatalmente, nelle parole di Scruton. Alle quali vale la pena aggiungere che il sacro nelle sue manifestazioni non solo ci giudica, ma risveglia in noi la speranza, e la speranza è insopportabile per chi ha deciso che il senso del tutto è il nulla.

La provocazione di Fabre è della stessa stoffa filosofica di quelle di Maurizio Cattelan e di Mimmo Paladino, ma va presa più seriamente per almeno una ragione: qui non abbiamo di fronte i bamboccini in gomma poliuretanica di Cattelan o il dito conficcato in Piazza della Borsa, da lui commissionato ma non certo scolpito (non ne sarebbe capace), né i cavalli di tufo di Paladino che qualunque artigiano sarebbe capace di tirare fuori dalla pietra, bensì una statua in marmo di Carrara realizzata con maestrìa degna dell’originale. Qui non abbiamo idee nichiliste materializzate senza fatica e senza merito, dove la potenza suggestiva fa dimenticare la povertà estetica; qui abbiamo lo splendore della bellezza del marmo lavorato con vera passione, al solo fine di dire che quella bellezza è nulla. Quello che normalmente fa sentire l’uomo a suo agio nel mondo e gli indica l’oltre del mondo – la bellezza, appunto -, qui diventa motivo di disagio e di disperazione.

La profanazione di un classico cristiano come la Pietà di Michelangelo è necessaria per cancellare la speranza anche nella sua dimensione di tradizione e di storia: il teschio si sovrappone al dolce volto michelangiolesco di Maria ragazza affinchè non resti traccia di ciò che per i nostri padri è stata una speranza che aveva tutti gli attributi della certezza, affinchè l’uomo sia separato dalla storia e dalla tradizione che arriva fino a lui. Il modo migliore di demoralizzare un uomo è tagliare le sue radici, convincerlo che i suoi padri erano degli illusi o dei mascalzoni. Per questo bisogna prendere in mano la tradizione e svuotarla, sfigurarla, capovolgerla, banalizzarla, ecc.

Fabre, Cattelan e Paladino fanno questo con estrema coerenza. E sanno farlo con elementi visivi, dei quali conoscono la potenza di suggestione. Mentre usano l’elemento verbale, grazie al quale potrebbero essere smascherati, come vera cortina fumogena. Cattelan intitola L.O.V.E. il suo irridente dito medio gigante e Fabre cita lo struggente desiderio di vita di una madre per il figlio solo per ingannare il pubblico. Per fargli abbassare la guardia. Perché la missione nichilista possa realizzarsi nel modo più efficace. E per sentirsi intelligenti e astuti rispetto alla massa che è lì solo per essere manipolata, irrisa e demoralizzata. Perché chi è disperato non tollera che ci sia qualcuno attorno a sé che non lo sia. E sa essere molto perfido e molto cattivo.

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