Il mal d’Africa?Gli antiglobalisti di Seattle e i terzomondisti d’Eurolandia

Di Rodolfo Casadei
17 Maggio 2000
L’assistenzialismo non giova ai poveri. Dopo 25 anni di regimi commerciali preferenziali e sovvenzioni alla produzione, i paesi del terzo mondo aiutati dall’Unione europea stanno peggio di prima, e Bruxelles cerca nuove vie, più aderenti all’economia di mercato. I terzomondisti protestano e profetizzano catastrofi. Ma non sarà acquistando banane a prezzi gonfiati che faremo decollare lo sviluppo di africani e caraibici. Meglio premiare (con gli aiuti) le economie che si danno da fare per individuare il loro vero vantaggio comparato. Il caso della nuova convenzione Ue-Acp.

Siamo alle solite. Si presenta un problema di rapporti internazionali complesso quanto a fattori e percorsi di soluzione, da affrontare con realismo e immaginazione, e subito buonisti, terzomondisti e moralisti vari insorgono erigendo l’indignazione a sostituto della politica, confondendo i mezzi coi fini, indicando con sicumera il colpevole sbagliato, e proponendo soluzioni che, spesso, aggravano il male anziché curarlo.

C’era una volta la convenzione di Lomé
Il caso è quello della Convenzione di Lomé, l’accordo che da 25 anni regola la collaborazione fra i paesi dell’Unione Europea e un folto gruppo di paesi del terzo mondo (46 all’atto della prima firma nel 1975, 71 oggi) raccolti sotto la sigla Acp, che significa Africa sub-sahariana, Caraibi e Pacifico, le tre aree geografiche in cui essi sono collocati. Si dà il caso che dall’8 giugno prossimo questo accordo, che per un quarto di secolo è servito a gestire e canalizzare circa un quinto di tutti gli aiuti dei paesi dell’Ue ai paesi in via di sviluppo, sarà sostituito da una nuova convenzione che prenderà il nome dalla località in cui sarà sottoscritta: Suva, capitale delle isole Figi. Dov’è il problema? Semplicemente nel fatto che la nuova convenzione sarà piuttosto diversa da quella che l’ha preceduta: mentre infatti la prima era basata su un trattamento preferenziale per le agroesportazioni dei paesi Acp, cui l’Ue concedeva un accesso privilegiato ai suoi mercati e una sovvenzione del prezzo in caso di flessione dei corsi o di scarsi quantitativi dovuti a calamità, la nuova convenzione prevede un regime transitorio destinato a sfociare nella creazione di zone di libero scambio (Ftz nell’acronimo inglese, free trade zones) fra singoli paesi o gruppi di paesi Acp e l’Ue. Questa decisiva evoluzione dell’accordo di Lomé si è resa necessaria per rendere compatibili con le norme sulle relazioni commerciali internazionali stabilite in sede di Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio che riunisce 136 paesi) i meccanismi che regolano gli scambi fra Ue e paesi Acp. Secondo la normativa approvata da tutti i 136 paesi affiliati al Wto (che comprendono anche quelli dell’Ue e quasi tutti gli Acp), non sono ammessi meccanismi di accesso preferenziale delle merci di uno o più paesi ad un determinato mercato, perché ciò rappresenta una discriminazione nei confronti delle merci dei paesi a cui questa preferenza non è concessa. E’ invece ammessa la creazione di zone di libero scambio, le suddette Ftz, cioè la sottoscrizione di accordi politico-commerciali che permettono a tutte le merci di circolare liberamente senza pagare dazi doganali attraverso i territori dei paesi contraenti, poiché convenzioni di questo tipo corrispondono allo spirito del WTO: abbattere le barriere tariffarie che ostacolano il commercio e integrare fra loro i mercati dei paesi del mondo. L’accordo di Suva configura il graduale passaggio da un sistema di preferenze discriminatorie ad uno di libero scambio regionale.

I terzomondisti gridano al tradimento Questa novità non ha fatto felici i paesi ACP, abituati ai benefici assistenzialistici del vecchio sistema, e ha provocato prese di posizione molto critiche fra i terzomondisti occidentali. “Le agenzie non governative per lo sviluppo -scrive Charlotte Denny sul britannico The Guardian- dicono che questo accordo è una trappola che costringerà i paesi Acp ad esporre le loro industrie allo stato nascente alla competizione delle imprese già consolidate dell’Ue… In base al nuovo accordo i paesi Acp dovranno gradualmente abbassare le loro tariffe nei riguardi dei prodotti provenienti dall’Ue. Alcuni esperti commerciali dicono che ciò potrebbe avere un impatto disastroso sui piccoli produttori nei paesi Acp e che l’Ue avrebbe dovuto chiedere al Wto di riconoscere un’eccezione per le esistenti misure dell’accordo di Lomé”. E Stefano Squarcina su “Mani Tese”, mensile dell’omonima associazione terzomondista italiana: “Anche gli Acp, insomma, dovranno essere sottoposti alle regole del liberoscambismo, che fanno sì che il Ciad risponda alle stesse iniziali regole di accesso al mercato mondiale dell’Italia, il Burkina Faso di quelle della Germania, lo Zimbabwe di quelle degli Stati Uniti. Una farsa che dipinge il libero mercato come un’area democratica che fa sottostare tutti i paesi alle stesse regole. Peccato che le condizioni di partenza siano diseguali. L’Ue ha insomma deciso di mettere fine ai suoi rapporti privilegiati con i paesi Acp, in nome della presunta democrazia del mercato mondiale a cui non crede nessuno”.

Davvero il libero scambio è un sistema insostenibile per i paesi poveri? Davvero la convenzione di Lomé così come ha funzionato per un quarto di secolo è il migliore degli accordi possibili? Cominciamo col rispondere alla seconda domanda. E’ vero che molti negli anni hanno enfatizzato le virtù della convenzione, presentandola come un modello di rapporti fra paesi del Nord e del Sud del mondo, e anche l’attuale Commissario europeo allo sviluppo, il danese Poul Nielson, non ha perso l’occasione di definirla “il più grande schema finanziario e politico per la cooperazione fra il Nord e il Sud nel mondo”. Effettivamente l’accordo esercita ancora una certa attrattiva, se è vero che anche nella nuova versione attira richieste di adesione: non solo quelle di piccoli paesi oceanici come le isole Cook, Nauru e Niue, ma anche quella, politicamente scottante, della Cuba di Fidel Castro.

Anziché aumentare, il commercio Ue-Acp è diminuito Ma se diamo un’occhiata alle cifre notiamo subito che la performance di Lomé è tutto meno che esaltante. Se l’obiettivo della convenzione era di incrementare le quote delle merci dei paesi Acp sul mercato europeo, il fallimento è palese: dopo venticinque anni di “cooperazione esemplare” l’interscambio economico fra le due parti è più che dimezzato. Fra il 1976 e il 1997, infatti, le importazioni dell’Ue di fonte Acp sono scese dal 6,7 per cento del totale al 2,8! La flessione è stata particolarmente marcata negli anni Novanta: nel 1990 i prodotti Acp rappresentavano il 4,8 per cento delle importazioni europee, nel 1997 erano già scese al 2,8. Ma anche sui mercati mondiali il commercio dei paesi Acp vale quanto un bruscolo nell’occhio: come ha recentemente ricordato l’europarlamentare britannica laburista Glenys Kinnock, l’incidenza dei 71 paesi ACP sui flussi commerciali mondiali equivale, escluso il Sudafrica che ne è entrato a far parte solo poco più di un anno fa, ad appena l’1 per cento del totale. Davvero poco, quando consideriamo che nei paesi Acp vivono, se escludiamo il Sudafrica, più di 600 milioni di persone, pari al 10 per cento dell’umanità, mentre l’intero terzo mondo, che totalizza il 74 per cento degli abitanti del pianeta, conta per il 28 per cento del commercio mondiale.

Scarso commercio equivale a scarsa crescita economica. Non abbiamo le statistiche per l’insieme Acp, ma le abbiamo per la sua componente principale, l’Africa sub-sahariana. Se analizziamo l’andamento della crescita economica sul lungo termine, scopriamo facilmente che l’Africa nera è l’area che mostra i risultati peggiori: fra il 1965 (dunque mettiamo dentro anche i 10 anni antecedenti alla convenzione di Lomé, ottimi per l’Africa dal punto di vista dei prezzi delle materie prime e agricole) e il 1997 il pil pro capite dell’Estremo Oriente è cresciuto del 5,4 per cento all’anno, quello dell’Asia meridionale del 2,3, quello del’America latina dell’1,3, ma quello dell’Africa sub-sahariana è diminuito dello 0,2! Infine, la mancata apertura dell’Africa all’economia di mercato globale ha tagliato fuori il continente dagli investimenti esteri che sono affluiti in gran parte del terzo mondo negli anni Novanta. Fra il 1986 e il ’92 gli investimenti esteri diretti sono passati da 6 a 16 miliardi di dollari in America latina e da 5 a 21 miliardi nel Sud-est asiatico, ma sono rimasti statici attorno ai 2 miliardi in Africa.

Perché questi risultati così poco brillanti? Per comprenderlo bisogna passare brevemente in rassegna i principali meccanismi dell’accordo di Lomé, cioè i suoi tre pilastri: il Fed, Fondo europeo per lo sviluppo rifinanziato ogni cinque anni e destinato a sostenere le politiche di aiuto ai paesi Acp, il principio della preferenza commerciale non reciproca di cui sopra si è detto e un meccanismo per la stabilizzazione delle entrate da esportazioni dei paesi Acp denominato Stabex. Lo Stabex è stato creato per offrire a quei paesi fondi cospicui per il finanziamento dei loro settori agricoli (ne beneficiano infatti 49 prodotti quasi tutti agricoli) quando questi ultimi incontrano gravi difficoltà dovute a cadute nelle entrate da esportazioni, sia dovute a flessioni dei prezzi mondiali che a calamità naturali che colpiscono la produzione. Per ciascun paese e per ciascun prodotto viene fissato un livello di riferimento, e ai paesi beneficiari è garantito un trasferimento di fondi equivalente in tutto o in parte alla differenza tra l’effettivo valore delle sue esportazioni e il livello di riferimento.

Stabex, l’assistenzialismo all’ennesima potenza Questi meccanismi si sono rivelati assistenzialistici e poco efficienti. Prendiamo lo Stabex: doveva servire a stabilizzare i proventi da esportazioni, e invece è servito a specializzare i paesi Acp in produzioni agroindustriali in cui non sono competitivi e i cui prezzi sono crollati per la sovrapproduzione mondiale. Ne è derivato per lo Stabex un onere finanziario sempre più grande e alla fine non sopportabile: Lomé IV, per esempio, aveva stabilito una dotazione annuale dello Stabex di 300 milioni di ecu per i primi tre anni (1990-92) dell’accordo, ma le risorse si dimostrarono largamente insufficienti; in quel triennio i paesi Acp denunciarono perdite di proventi per 4.142 milioni di ecu, di cui 3.289 potevano essere rimborsate dallo Stabex: che però disponeva soltanto di 900 milioni! Nel 1991 il prezzo del caffè era sceso al 38% del suo valore del 1980, e il cacao al 32%: da allora non si sono più ripresi. La domanda sorge spontanea: perché l’Ue deve continuare a finanziare produzioni evidentemente fuori mercato? Perché non sopprime questo sistema di compensazione che ricorda l’epoca coloniale, quando comunque la madrepatria importava i prodotti tropicali dalle sue proprie colonie, e non utilizza le risorse liberate per altre forme di aiuto? Nessuno pretende che l’Europa si limiti a eliminare i regimi preferenziali: le risorse liberate può e deve utilizzarle per forme di aiuto più intelligenti, e anche la semplice sovvenzione ai bilanci statali sarebbe sicuramente più intelligente di queste forme arcaiche di sostegno alla produzione.

La follia delle banane:
spendere 13 dollari per darne 1 ai produttori Prendiamo un altro esempio illuminante: la “guerra delle banane” che ha visto l’Ue sul banco degli imputati a causa del regime preferenziale garantito alle banane dei paesi Acp. A denunciare l’Ue agli organi arbitrali del Wto sono stati alcuni paesi produttori sudamericani spalleggiati dalle multinazionali agroalimentari Usa. Questa vertenza, che ha visto soccombere la Ue condannata per pratica commerciale “discriminatoria”, è stata interpretata dai terzomondisti come un’aggressione delle cattive ed egoiste multinazionali Usa delle banane, dietro la copertura dei paesi latinoamericani non-Acp produttori, contro un sistema che offre benefici ai poverissimi paesi e produttori africani e caraibici. Ma può essere letta anche in un altro modo, e cioè come l’inevitabile resa dei conti di una politica scriteriata e fallimentare. Secondo uno studio effettuato sui dati del 1994, in quell’anno il regime preferenziale delle banane è costato 2 miliardi di dollari ai consumatori dell’Ue, ma di questi solo 150 milioni sono andati ad undici paesi produttori: 1 miliardo di dollari se ne è andato in “canone quota”, cioè per coprire la differenza fra il prezzo di mercato reale e quello sovvenzionato. Questi soldi non sono finiti ai “produttori poveri”, ma a chi trasporta e commercializza il prodotto. Ciò significa che i consumatori europei spendono 13,25 dollari per dare 1 dollaro di beneficio ai produttori Acp. Domanda: anziché maledire gli Usa, il Wto e l’economia di mercato, non sarebbe più semplice ed economico abolire il regime preferenziale delle banane e trasferire ai paesi Acp 150 milioni di dollari in più di aiuti allo sviluppo ogni anno? In conclusione, la strada scelta dalla convenzione di Suva, cioè il graduale passaggio dal regime commerciale preferenziale a quello delle Ftz, non è affatto sbagliata. Sbagliata è l’idea che i paesi poveri non possano competere con quelli avanzati: anche nell’Africa sub-sahariana aderente alla convenzione ci sono due miracoli economici fondati sulle esportazioni verso paesi più ricchi, e cioè il Botswana e Maurizio, che hanno imitato la politica economica già attuata dalle “tigri asiatiche”, dal Cile, dalla Cina, dalla Thailandia, ecc.: l’individuazione del vantaggio comparativo e il suo coerente perseguimento. Da vent’anni a questa parte il pil dei due paesi cresce rispettivamente del 7 e del 5 per cento all’anno perché si sono specializzati in produzioni da esportazione che godono di un reale vantaggio comparativo: il Botswana esporta ottimi diamanti reprimendo efficacemente il contrabbando, Maurizio è passata dall’esportazione di zucchero alle manifatture tessili e poi negli ultimi anni alla lavorazione intermedia di prodotti informatici. Non sono state certamente le banane o il cacao sovvenzionati dall’Ue a produrre i loro miracoli economici…

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