Il “madre Teresa” dei musulmani

Di Rodolfo Casadei
13 Dicembre 2001
Tre milioni di bambini poveri curati, un milione di handicappati assistiti, 80 mila tossicomani e malati mentali riabilitati, 20 mila neonati abbandonati salvati da morte sicura. E ambulanze, mense popolari, servizi di protezione civile… Sono i numeri e le opere della Fondazione creata da Abdul Sattar Edhi, filantropo musulmano pakistano che si è fatto dei nemici fra i musulmani perché non fa differenze fra fedeli e infedeli di Rodolfo Casadei

«I musulmani che desiderano vivere in un clima di pace devono poter scegliere il Jihad della filantropia come alternativa al Jihad dell’egemonia; devono poter scegliere la via dell’umanitarismo piuttosto che della militanza armata. Chi vuole partecipare alle guerre sante deve poter scegliere di combattere per la vita piuttosto che per la morte. Con Edhi, la scelta è possibile». L’Edhi in questione è Abdul Sattar Edhi, 70enne filantropo musulmano di nazionalità pakistana, mentre colei che ha pronunciato parole tanto impegnative è Tehmina Durrani, la scrittrice pakistana più famosa all’estero, autrice del romanzo autobiografico Schiava di mio marito (Mondadori 2001). Di un uomo come Edhi e del grande valore umano e politico della sua opera ha cominciato ad accorgersi qualcuno anche in Italia: l’anno scorso è stato insignito del prestigioso Premio Balzan nella categoria “Umanità, pace e fratellanza” «per il suo altruistico lavoro, durato tutta la vita, a favore dei più poveri e della pace»; il 20 novembre scorso il presidente lombardo Formigoni gli ha assegnato, insieme al sindaco di New York Rudolph Giuliani, il Premio speciale Lombardia per la Pace 2001 «per essersi dedicato con assiduità al sostegno dei più poveri».

Fondazione Edhi: milioni di beneficiati

Ma di che cosa si occupa esattamente la Fondazione internazionale Abdul Sattar Edhi, un’opera avviata dal suo fondatore nel 1951 con la creazione di un modesto ambulatorio per la distribuzione delle medicine ai poveri nella città di Karachi? Si farebbe prima a dire di che cosa non si occupa. Attualmente, infatti, la Fondazione gestisce una flotta di 400 ambulanze, un servizio di avioambulanza composto da un elicottero e due aerei, 240 centri di assistenza su tutto il territorio pakistano, scuole per infermiere, case per orfani e bambini abbandonati, reparti di maternità, ospedali completi con centri specializzati in nefrologia e oncologia, dispensari per la distribuzione di medicinali ai poveri, 60 centri per interventi di emergenza e protezione civile in caso di calamità, centri di per la riabilitazione di tossicomani e malati mentali, mense per i poveri e magazzini per la distribuzione di aiuti alimentari in tutte le principali città pakistane, un servizio per il ritrovamento delle persone scomparse, una banca del sangue ramificata in tutto il paese, un servizio tumulazioni per la sepoltura dei cadaveri non riconosciuti e di persone troppo povere per il pagamento del servizio funebre, un servizio di aiuti ai carcerati di varie prigioni, un ostello per animali abbandonati o che hanno subìto maltrattamenti, schemi generatori di reddito per i poveri (allevamenti avicoli domestici). Inoltre la Fondazione Edhi assiste profughi provenienti da una decina di paesi, molti dall’Afghanistan e dal Kashmir e opera anche coi suoi servizi assistenziali in paesi come Usa, Canada, Regno Unito, Australia, Bangladesh, Giappone, Emirati Arabi Uniti, ecc. Le strutture della Fondazione Edhi hanno curato più di 3 milioni di bambini; hanno riabilitato 80 mila tossicomani e malati mentali; hanno salvato, attraverso il programma “case-culla”, 20 mila neonati; hanno formato 40 mila infermiere; hanno visto nascere in maternità sicure 1 milione di bambini; hanno procurato stampelle, sedie a rotelle e ricoveri ospedalieri a 1 milione di handicappati; hanno dato sepoltura a oltre 200 mila cadaveri non riconosciuti; hanno fatto e fanno molte cose la cui entità numerica non potrà mai essere appurata.

Un musulmano molto ecumenico

Quando si chiede ad Edhi che legame ci sia fra la religione musulmana e la sua avventura umana, la risposta è che l’essenza dell’islam è l’“umanitarismo”, ovvero l’amore del prossimo, e che la sua vita è il tentativo di mostrare questa verità: «Come potevo insegnare l’islam alle persone? Come fare comprendere ai musulmani il messaggio del Corano? La sua essenza non è raggiungibile tramite parole e spiegazioni, scritti e proclami. L’essenza sta nell’esempio. Ho dovuto interpretare il messaggio con il mio modo di vivere. Ho dovuto fornire un esempio personale della pratica dell’islam, e un giorno questa diventerà la sua interpretazione più ovvia. Ma il viaggio è durato una virta intera». Questo approccio ha incontrato resistenze soprattutto fra gli stessi musulmani pakistani, ovvero fra i gruppi di potere politici e religiosi più oscurantisti. Di volta in volta Edhi è stato attaccato, sabotato o intralciato perché ammetteva come utenti delle sue opere assistenziali anche i non musulmani, o perché salvava da morte certa orfani la cui nascita era “frutto del peccato”, o perché affidava troppe responsabilità dell’organizzazione a una donna, la moglie Bilquise, al cui sostegno egli attribuisce “il 70 per cento del mio successo”. Ma su questi come su altri punti Edhi si è sempre mostrato intransigente. A proposito degli aiuti ai non musulmani: «Quale religione mi proibisce di dare loro da mangiare e di che vestirsi? Chi dovrebbe beneficiare della religione se non coloro che sono nella miseria più nera? Se Egli è il Dio dell’universo, perché dovrebbe essere limitato a pochi?».. E ancora: «Quando ho sentito che il presidente libico Gheddafi aveva offerto degli aiuti ai paesi poveri musulmani gli ho scritto per suggerirgli di estendere l’offerta, in quanto musulmano, a tutti gli stati in difficoltà. È questa la strada indicata dall’islam». Edhi è certamente un visionario, capace di dire cose del tipo: «Entro il 2000 il mondo adotterà il concetto futuristico di umanitarismo e si riunirà sotto la direzione di un unico capo e di un ideale… Le ostilità sulla terra termineranno soltanto quando i capi mondiali promuoveranno l’umanitarismo». Ma anche uno che ha le idee molto chiare sui problemi del Terzo mondo: «Da noi il problema non era quello di rompere il potere del capitalista locale, quello era semplicemente un ostacolo. Il problema era risvegliare la gente, scuoterla dal torpore, indirizzarne l’attenzione verso le capacità personali, far riaffiorare la dignità individuale contando sulle proprie forze…Come fare a cambiare la gente, a instillare l’idea del lavoro come fonte di dignità? Con l’esempio personale, dimostrando che a un uomo basta il suo duro lavoro, che l’aiuto è un limite, una scusa per i pigri, una stampella per gli incapaci».

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