Il lockdown nuoce gravemente alla salute

Di Giancarlo Cesana
13 Novembre 2020
Giusto preoccuparsi per la tenuta della sanità davanti alla seconda ondata di Covid. Ma si può per timore e ignoranza trasformare 60 milioni di individui in maschere rinchiuse e isolate? No, bisogna imparare a convivere con il virus
Nonno e nipote neonato passeggiano in un parco di Milano durante il lockdown

Articolo tratto dal numero di novembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

È tornato il Covid. Se non ci eravamo illusi della sua scomparsa, avevamo sperato che si fosse placato, che la decisione con cui era stato affrontato potesse vincerlo. D’altra parte nei confronti internazionali l’Italia andava benino: dopo la fase acutissima di marzo-aprile, aveva sensibilmente meno contagi, meno ricoveri e meno morti. Ci auto-lodavamo. L’Oms diceva che il nostro paese era un esempio per tutti. Invece i contagi hanno ricominciato a salire esponenzialmente; ricoveri e morti assai meno, ma la paura è che i primi possano comunque raggiungere in breve tempo i massimi della capienza ospedaliera rendendo impossibili cure adeguate, come fu in primavera. Già le strutture territoriali delle regioni più colpite, in particolare nelle aree metropolitane, non riescono più a seguire il tracciamento, cioè a testare l’eventuale contagio prodotto dal contatto con persone infette. 

Se la fatica diventa usura

Se in primavera tutti, e in particolare il personale sanitario, si sono impegnati con stupefacente dedizione per far fronte alla catastrofe, adesso l’aria è cambiata. Quando un’emergenza si ripete, diventa cronicità e lo sforzo per affrontarla da fatica si trasforma in usura. La tentazione di tirarsi indietro è grande e diffusa. Se poi ci si mettono le indagini della magistratura come espressione di un riconoscimento sociale assente o ipocrita, si capisce che l’animo degli operatori e responsabili sanitari di oggi non è più quello di sei mesi fa. 

Inoltre le chiusure e lo smart working hanno su molti l’effetto di giustificare l’assistenzialismo e il non lavoro, o il lavorare poco, come un diritto. Per altro verso accentuano una crisi economica che fa sempre più paura. Tanto più fa paura in quanto l’accusata impreparazione di fronte alla seconda ondata mette in evidenza il pressapochismo e la superficialità dei governanti. Non parliamo poi della diffidenza e dell’incertezza introdotte nei rapporti dal “distanziamento sociale”, che induce a vedere l’altro come pericolo e non invece come la possibilità di una relazione amicale di cui si ha estremo bisogno.

Purtroppo la seconda ondata e l’evidente e sostanziale ignoranza che accompagna questa, come ha accompagnato l’insorgenza e la riduzione della pandemia, avvisano che ci stiamo avviando verso l’endemia, ovvero la presenza abituale, normale del Covid, con l’effetto di produrre possibilità persistente di infezione. La sottolineatura dell’ignoranza non è una svalutazione della conoscenza scientifica, che è assai progredita in questi mesi, ma è la consapevolezza che tale progresso non è ancora in grado di prevenire l’andamento e il controllo del fenomeno, anche se lo sa individuare e curare di più. Con il Covid bisognerà convivere quindi, fino a primavera prossima dicono alcuni, per tutto il 2021 dicono altri. E convivere con il Covid significa convivere con una malattia contagiosa, con le raccomandazioni e i provvedimenti restrittivi di Stato e Regioni, amplificati dall’allarmismo di chi sul Covid campa per varie ragioni e scopi: stampa e tv, esperti di vario genere, politici di tutti i partiti. 

Bisogna, allora, attrezzarsi con il giudizio, così che il senno non vada smarrito, ma faccia quello che deve, aiutare a vivere.

Gli strumenti e lo scopo

Innanzitutto deve essere chiaro il rapporto tra salute e sanità. La seconda non coincide con la prima, ma è un insieme di conoscenze e strumenti utili a realizzare la prima che è lo scopo. La sanità è solo uno dei contributi al raggiungimento della salute. Lo dice anche l’Oms nella sua astratta definizione della salute come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale». Per quanto questo stato non esista per nessuno che non sia in condizioni di euforia delirante, si capisce che le cose sono complesse. La salute è messa in pericolo certamente dai batteri, virus e cellule cancerose, ma anche da comportamenti insalubri, i quali possono essere indotti dalla mancata educazione e dalla povertà, che non rende disponibili cibo, farmaci e risorse ambientali necessarie. Basti pensare alla mancanza di acqua pulita. D’altra parte i medioevali avevano fatto gli ospedali per ricoverare i malati e anche i poveri perché la povertà è “la madre di tutte le malattie”. La difficoltà del vivere si può riflettere poi – ma meno di quanto si creda – sull’equilibrio mentale generando infelicità e scoraggiamento.

Quindi, per preservare la salute non basta la sanità. L’Oms ha addirittura specificato che condizioni fondamentali per la salute sono «la pace, un tetto, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, la continuità delle risorse, la giustizia e l’equità sociale». Tutto quello che i lockdown, grandi o piccoli che siano, mettono in pericolo. E nemmeno l’Oms parla di una sanità efficiente che è evidentemente implicita e secondariamente inclusa nelle condizioni riportate. Poi ci sono i rapporti, affettivamente e materialmente necessari. Abbiamo bisogno di essere voluti bene, di non essere lasciati soli, di qualcuno che aiuti concretamente nel bisogno. I bambini e i giovani senza scuola, maestri e insegnanti vengono su storti. I genitori insopportabilmente chiusi negli appartamenti, con il problema del lavoro e con il pericolo di perderlo, magari non sanno cosa fare con i bambini e si stortano anche loro. I vecchi sono isolati nella fragilità e inutilità, perché, per il loro bene e la loro salute, debbono astenersi dal contatto con altri – praticamente tutti – che possono essere pericolosi. Così soprattutto loro, ma non solo, sono consigliati a vivere sepolti per non morire.

Il prezzo della passività

Non si può lasciarsi andare passivamente e cedere a questa situazione. Non si può rinunciare agli amici, che confortano e sostengono. Non si può rinunciare all’aria e alla luce. Non si può rinunciare a imparare e costruire con lo studio e il lavoro. Tutto ciò non è contrario alla prudenza, alle mascherine, a lavarsi le mani e stare un po’ distanti quando è necessario. Appunto quando è necessario e chiaramente indicato più che da obblighi e “lanciafiamme” da suggerimenti e raccomandazioni, che trattino le persone adulte come tali, capaci di sorvegliare anche i bambini. 

Prima e seconda ondata ci hanno insegnato che il lockdown ha ammazzato l’economia, ma non ha eliminato il virus – chissà in Cina come hanno fatto, se l’hanno fatto – che è ricomparso con la sua capacità diffusiva non appena la convivenza collettiva è ripresa. Le restrizioni attualmente imposte fino al 24 novembre, magari con un esito temporaneo favorevole, faranno presumibilmente la stessa fine. La convivenza è un rischio difficilmente correggibile. 

Si possono mettere i plexiglas come schermo tra i banchi, ma poi ci sono gli incontri fuori della scuola, per i più grandi la voglia di bere qualcosa insieme. I trasporti si affollano nelle grandi aree urbane, come le piazze nelle sere e nel weekend. I contagiati fuori possono portare il virus nelle famiglie e tra gli amici e quindi ridiffonderlo all’esterno. Le mascherine si possono mettere e togliere, le distanze si possono accorciare e anche di molto, le mani pulite servono sempre, ma non specificamente. Che cosa si vuole fare? Trasformare sessanta milioni di individui in maschere, rinchiuse, separate le une dalle altre? Impossibile, o meglio possibile per poco tempo, dopo di che c’è la ribellione tacita o violenta.

Rischi e cautele

Siamo bombardati dalle notizie sul numero crescente di contagi, che, come è stato giustamente detto, finché non sono malati, sintomatici, non sono casi. Si dice che il tracciamento sta fallendo. Con migliaia di contagi giornalieri è inevitabile. Non abbiamo personale e strutture sanitarie sufficienti. Lo stesso avviene sostanzialmente negli altri paesi, per quanto possano avere un’organizzazione migliore. Il tracciamento è utile, ma non è decisivo. Preoccupazione fondata è che i pronto soccorso e gli ospedali si stanno intasando di casi di media e lieve gravità, mentre le rianimazioni crescono meno ma sistematicamente. Bisogna, più che gridare allarmi sull’aumento dei contagi e sulla mancata organizzazione sanitaria, mettersi al lavoro per fare quello che si deve: rendere più presente ed efficiente la medicina territoriale (medici di medicina generale e pediatri di libera scelta che curino il più possibile a domicilio evitando ricoveri inappropriati); dotare i reparti di medicina (spesso ridotti a lungodegenze di pazienti assai anziani, inadeguate al trattamento di malati acuti) di terapie subintensive e intensive che riducano l’occupazione delle rianimazioni; rivedere i posti letto di queste ultime in relazione al bisogno dei trattamenti complessi e lunghi richiesti dalla complicazione di fenomeni epidemici quali il Covid.

Come detto più sopra, se si vuole vivere, bisogna convivere con il Covid che sarà ancora tra noi per parecchio tempo. Il rischio di infezione non potrà mai essere zero, anche con il vaccino. Di qui la necessità di migliorare l’efficacia delle cure. Ciò non contrasta con le cautele preventive indicate ai singoli e alla collettività. Contrasta con il cedimento alla tentazione del lockdown, inteso come chiusura acritica di tutto o quasi, che è soluzione apparentemente semplice e radicale, ma disastrosa, di chi non sa cosa fare.

Foto Ansa

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.