Il liberalismo sega il ramo su cui è seduto

Di Rodolfo Casadei
13 Ottobre 2020
I suoi successi storici dipendono in gran parte dall’eredità di rapporti sociali, consuetudini morali, stili di vita comunitari che sono ciò che intende distruggere. L'introduzione al libro di Deneen

Pubblichiamo l’introduzione di Rodolfo Casadei al libro Perché il liberalismo ha fallito di Patrick J. Deneen (edizioni La Vela) in libreria in questi giorni. Tempi ha intervistato Deneen nel numero di agosto.

Chi avesse sostenuto, anche solo pochi anni fa, per esempio alla vigilia delle elezioni presidenziali americane del 2008 che portarono alla Casa Bianca Barack Obama, che il liberalismo aveva fallito, sarebbe stato preso per pazzo. Oggi un libro col titolo Perché il liberalismo ha fallito si può pubblicare senza troppo scandalo. Il titolo che Patrick Deneen, docente della Notre Dame University nell’Indiana, ha voluto dare al suo ultimo saggio di filosofia politica non provoca nessuna reazione di scherno, ma suscita piuttosto interesse e preoccupazione. Interesse fra quanti, all’indomani della crisi finanziaria internazionale innescata dal fallimento di Lehman Brothers, hanno cominciato a chiedersi se davvero non stavano per crollare le basi dell’espansione economica ininterrotta che ha reso possibile l’imporsi del modello politico-economico liberale e che avevano fatto pensare a qualcuno, all’indomani della fine della Guerra fredda con la vittoria del campo occidentale, che insieme al braccio di ferro fra Est e Ovest era finita anche la storia. Preoccupazione fra quanti di quel modello hanno beneficiato, cioè soprattutto le élites globaliste a tutti i livelli (finanza, impresa, politica, mondo della comunicazione e dello spettacolo) e le classi subalterne parte della coalizione sociale che le élites sono riuscite a coagulare nelle città-mondo, dove il modello liberale globalizzato sembra ancora funzionare. Oggi l’autocrate di successo Vladimir Putin può permettersi di dichiarare al Financial Times che «il liberalismo è obsoleto» provocando sì la replica del presidente uscente del Consiglio Europeo Donald Tusk che dichiara che «a essere obsoleto è l’autoritarismo», ma senza essere irriso da nessuno. Perché i segni della crisi, se non dell’obsolescenza, ci sono tutti, a cominciare da quelli geopolitici: sono poco o per nulla liberali le potenze in ascesa – Arabia Saudita, Cina, India, Iran, Russia, Turchia -, sono liberali le potenze che stanno perdendo posizioni – Stati Uniti e Unione Europea. All’interno dell’Unione Europea ci sono forze politiche e governi che mettono sul banco degli imputati il liberalismo e intendono sostituirlo con modelli di “democrazia illiberale” (copyright Viktor Orban, premier ungherese che ha vinto quattro elezioni politiche in vent’anni), mentre la protesta dei gilet gialli in Francia è stata definita come l’azione di un “blocco anti-liberale”.

Copertina di Perché il liberalismo ha fallino di Patrik Deneen

Ma non sono solo l’islam politico, i sovranisti, i populisti e le autocrazie in ascesa a dichiarare esaurita l’esperienza liberale: sempre il Financial Times ha chiamato in soccorso del malato Yuval Noah Harari, lo storico israeliano ateo, liberal e militante delle cause Lgbt che ha venduto milioni di copie dei suoi libri Sapiens e Homo Deus. Costui si è limitato a dire che il liberalismo non può più pretendere di essere un menù fisso acquistando il quale si acquistano in blocco tutti i piatti della lista (libertà personali, politiche ed economiche), ma sempre più sarà un buffet al quale ci si accosta per scegliere solo la pietanza che più aggrada: la Cina si abbuffa di libertà del commercio internazionale, ma rifiuta le libere elezioni; Donald Trump mangia a sazietà libera economia di mercato entro i confini degli Usa, ma preferisce il digiuno quando si tratta di libera circolazione mondiale di merci e persone. Harari sarebbe stato più onesto se avesse ripetuto quello che ha scritto in Homo Deus – Breve storia del futuro: «Le scienze biologiche destabilizzando le fondamenta del liberalismo, perché sostengono che l’individuo libero è soltanto una favola generata da un insieme di algoritmi biochimici. (…) I crociati medievali erano convinti che Dio e il paradiso riempissero la loro vita di senso; i liberali moderni sono convinti che le libere scelte dell’individuo riempiano la vita di senso. Tutti quanti si illudono alla stessa maniera. (…) persino Richard Dawkins, Steven Pinker e gli altri paladini della nuova visione scientifica del mondo si rifiutano di abbandonare il liberalismo. Dopo aver dedicato centinaia di pagine erudite a decostruire il sé e il libero arbitrio, si producono in sorprendenti salti mortali intellettuali che, come per miracolo, li fanno atterrare nel XVIII secolo, come se tutte le straordinarie scoperte della biologia evolutiva e delle neuroscienze non incidessero minimamente sulle idee morali e politiche di Locke, Rousseau e Jefferson». (pp, 460-461) Dunque la scienza e gli intellettuali, che tanta parte hanno avuto nel successo del liberalismo quando si trattava di combattere la presa degli ideali gerarchici di origine religiosa sul sistema politico e sull’ordine sociale, ora gli si sono rivoltati contro: se il libero arbitrio non esiste, l’autodeterminazione su base individuale come valore morale centrale del liberalismo viene meno.

Harari scrive che il liberalismo oggi non è minacciato dalle idee, ma dalle innovazioni tecnologiche. Effettivamente l’applicazione di algoritmi sempre più sofisticati a tutti gli ambiti della vita rischia di portare un colpo mortale al motore del liberalismo filosofico: il liberismo economico che traduce l’idea liberale secondo cui il gioco delle libertà individuali in relazione a proprietà, produzione e commercio produce più ricchezza per tutti rispetto agli altri modelli economici, compreso quello sedicente scientifico del socialismo. Von Hayek aveva riassunto la superiorità dell’”ordine esteso” di mercato sul socialismo spiegando che la pianificazione centrale non potrà mai conoscere i bisogni e le risposte ai bisogni meglio del libero mercato, perché nel libero mercato si incontrano spontaneamente le conoscenze disperse di milioni di attori economici: «seguendo le tradizioni morali sorte spontaneamente e sottostanti all’ordine concorrenziale del mercato (…), noi possiamo generare e raccogliere una quantità di conoscenza e di ricchezza più grande di quella che potrebbe essere ottenuta e utilizzata in un’economia diretta centralisticamente – un’economia, questa, i cui adepti presumono di procedere rigidamente secondo i dettami della “ragione”» (Friedrich A. von Hayek, La presunzione fatale – Gli errori del socialismo, Rusconi 1997, p. 11). La certezza di Von Hayek oggi vacilla: si avvicinano i giorni nei quali un potere centrale potrà veramente programmare l’economia perché conoscerà tutto dei cittadini produttori-consumatori attraverso la combinazione di informatica, algoritmi e big data. Il sogno dei socialisti potrebbe realizzarsi in una forma molto diversa da quella che loro immaginavano, la forma del capitalismo di Stato informatizzato cinese.

Nelle pagine che seguono Deneen descrive il liberalismo come l’uomo che sega il ramo su cui è seduto: i successi storici del liberalismo dipendono in gran parte dall’eredità di rapporti sociali, consuetudini morali, stili di vita comunitari che sono esattamente ciò che il liberalismo intende distruggere per dare vita storicamente all’individuo autonomo e indipendente che aveva teorizzato. Il risultato della lunga cavalcata liberale è sotto gli occhi di tutti: mai al mondo è stato prodotto e distribuito tanto benessere materiale, ma mai la diseguaglianza fra i più ricchi e il resto della popolazione è stata così accentuata; mai c’è stata così tanta libertà di diffusione delle informazioni e del pensiero e di azione politica, ma mai l’azione politica ha contato così poco di fronte a un sistema economico internazionale che impone una quantità enorme di scelte obbligate e mai la libertà di parola è stata così pesantemente condizionata dal conformismo del politicamente corretto. A trarre vantaggio massimamente dall’ordine liberale sono state le élites tecnocratiche, che hanno sostituito le antiche aristocrazie nel ruolo di principali beneficiarie dell’ordine politico-economico. La nuova aristocrazia si è meritata con lo studio presso le migliori università e con le eccellenti qualità imprenditoriali o manageriali la posizione che occupa, diversamente dalla tarda aristocrazia del passato. Ma per salire al posto che occupa (e che in proporzione la colloca a una distanza di potere e ricchezza dl restante 90 per cento della popolazione molto più grande di quella che separava aristocrazia e popolo al tempo degli ultimi monarchi francesi) l’aristocrazia liberale ha prima dovuto disarticolare tutte le istituzioni e le formazioni sociali che per secoli avevano garantito la stabilità della società e soprattutto il senso della vita della massa della popolazione. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: impennata dei tassi di divorzio, della natalità fuori dal matrimonio, dei figli di coppie separate; crollo della natalità e invecchiamento della popolazione; immigrazione incontrollata funzionale a un sistema economico che non può fare a meno dei bassi salari e che non prevede lo sviluppo di alcune aree del pianeta; boom degli psicofarmaci necessari a sedare l’angoscia della condizione dell’individuo isolato, boom delle tossicodipendenze e di molte altre dipendenze; crisi del sistema pensionistico e ripetuti spostamenti in avanti dell’età pensionabile; drastica riduzione delle prestazioni di welfare a strati crescenti della popolazione; disoccupazione giovanile massiccia e diffusa occupazione precaria o irregolare; crisi del debito pubblico e privato che hanno toccato entrambe cifre inimmaginabili; crisi ambientale planetaria prodotto dello sfruttamento dissennato delle risorse nell’ottica consumistica e della crescita illimitata; crisi della politica colpita dalla disaffezione e dalla scarsa partecipazione dei cittadini, che si rivolgono sempre più alle formazioni politiche anti-sistema.

Le conseguenze sociali distruttive del trionfo del liberalismo e il clima nichilista che circonda la sua crisi nascono dall’avere affermato il primato della libertà di scelta al di sopra del contenuto della scelta. Autodeterminazione è la parola d’ordine del mondo liberale, ma non essendo più stato riconosciuto e affermato nessun altro valore superiore all’autodeterminazione, che avrebbe potuto guidarla e moderarla, l’esito è stato alla fine distruttivo. Lo dice bene Francesco Botturi e il relativo brano del suo libro Universale, plurale, comune merita di essere citato per esteso: «La difesa della libertà nella forma dell’autodeterminazione è l’argomento pubblico per eccellenza a sostegno della temporaneità dei legami affettivi, dell’equivalenza antropologica e morale delle identità sessuali, della fecondazione tecnologica, della disponibilità del feto e di quella della stessa propria vita. Ciò significa che il contenuto della scelta è stato ormai riassorbito dalla forma della libertà: il discernimento tra bene e male non ha rilevanza rispetto al fatto che il qualcosa sia stato scelto: è cioè la forma dell’essere scelto che attribuisce valore al contenuto, come ha anticipato J.P. Sartre. Alle spalle sta la cancellazione volontarista di una “misura” intrinseca alla libertà e l’abbandono dell’idea della libertà come adesione al bene, essendo lo stesso scegliere l’unico bene. (…) Nichilista, ovviamente, non è l’idea di autodeterminazione, ma la sua interpretazione in senso integralmente autoreferenziale. Dunque un’idea non nichilista, quella di autodeterminazione, ma svuotata dall’interno da una sensibilità nichilista: una libertà estrapolata da un universo superiore di senso, priva di orientamento esterno (autotrascendenza) al bene, senza criteri normativi della scelta, tesa esclusivamente all’autoaffermazione; potremmo dire. Alla propria volontà di potere. Insomma, una libertà che è misura di se stessa e che cioè non ha misura; una libertà formale indifferente al suo contenuto, dunque che aspira alla perfetta autoreferenzialità» (p. 30).

Nel libro che avete in mano troverete più di un capitolo dedicato alla sostituzione dell’educazione classica e cristiana al governo di sé che è la vera libertà, con l’educazione individualista al fare quel che si vuole come espressione di libertà. Troverete anche un capitolo conclusivo dove l’autore formula alcune proposte per il dopo-liberalismo, cioè per l’epoca che seguirà al collasso dell’attuale sistema. Per parte nostra ci limitiamo ad avanzare il nostro personale pronostico su quel che succederà. Non sarà indolore e non sarà lineare la fuoriuscita dal sistema liberale globalizzato. Certamente modelli semi-autoritari prenderanno il suo posto per un certo periodo. Nelle parti dell’Occidente che più hanno beneficiato della globalizzazione liberale il sistema prevalente sarà quello del politicamente corretto eretto a ideologia totalitaria; nelle parti dove la globalizzazione e l’Unione Europea a trazione tedesca hanno causato recessione o stagnazione prevarranno sovranismi tinti di nazionalismo. Gli uomini di buona volontà potranno nell’uno e nell’altro sistema cercare di dar vita a forme di autogoverno locale volte a rianimare i vincoli sociali e comunitari trascurati dal liberalismo. A loro servirà, come scriveva Alasdair McIntyre vent’anni fa nel suo Dopo la virtù, un nuovo san Benedetto da Norcia, posto che il crollo del liberalismo avrà effetti dirompenti come quelli della fine dell’Impero Romano: «Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e oscurità. Se la mia interpretazione della nostra situazione morale è esatta, dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta. Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano al di là delle frontiere: ci hanno governato per parecchio tempo. Ed è la nostra consapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso».

Foto Ansa

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