
Il leale discontinuo
A un primo sguardo il risultato è strepitoso, al secondo pure. Ma la politica non è soltanto un’illusione ottica, adesso Veltroni o fa sul serio oppure diventerà un Prodi che ha imparato a scandire i propri sogni impossibili. Magari i votanti alle primarie non saranno stati proprio tre milioni e mezzo (gli uffici stampa fanno miracoli poco credibili) ma è lecito credere che siano stati in parecchi, domenica scorsa, a incoronare Walter Veltroni come primo segretario del Partito democratico (oltre il 75 per cento di preferenze), e a contenere Rosy Bindi che gli siede accanto come il cattivo presentimento di un’opposizione interna tutta prodiana (con il 14 per cento: un insuccesso). A Enrico Letta (10 e qualcosa) va invece meglio del previsto, considerando l’incomprensibile campagna da boy-scout con la quale si era offerto al mercato dei nuovi democrat. Insomma adesso è festa grande e sono coriandoli di pace a suggellare l’investitura veltroniana e la promessa d’una buona e tenera coabitazione tra Walter e Romano, i due corni di un dilemma da verificare nelle prossime settimane.
Gli osservatori discettano già sopra uno schema nuovo che avrà forti riverberi sull’intero paesaggio politico nazionale (a cominciare dalla Casa delle Libertà a guida monarchica e berlusconiana, pensano gli ingenui). Nei fatti, una volta svaporate le bollicine di champagne, Veltroni sarà finalmente chiamato a fare della propria leadership una cosa seria, oppure a seguire stancamente il nemmeno più lento declino dell’attuale maggioranza.
L’uso di mondo impone nelle prime ore l’obbligo della pacca reciproca, con Veltroni che assicura lealtà a un esecutivo moribondo e il Prof bolognese che ricambia il sorriso mentre sfoglia compulsivamente la nomenclatura dell’assemblea democrat per soppesare il quoziente di potere che gli rimane nel deposito del nuovo partito. Un residuo di ulivismo vecchia maniera sembra sopravvivere ai fasti veltroniani, perché Bindi (più che Letta) ha nella propria ragione sociale quella di fare attrito nei confronti di ogni tentazione prodicida. Ma non è detto che possa durare. Di certo non conviene a Veltroni.
La sconfitta fassinian-dalemiana
Sotto il profilo della filosofia democratica, la cerimonia domenicale rivela anche la fragilità di un parto lunghissimo e accidentato. Il Pd doveva sorgere per via rivoluzionaria, abbattendo le antiche rendite dei due partiti-affluenti (Ds e Margherita) e invece come tutti sanno è stato, ferma restando la novità rumorosa, pure il frutto amarognolo della sconfitta dalemiana, e della furbizia post-dc. La nuova questione morale e giudiziaria legata al caso Unipol ha aperto la via a Walter, ma pur sempre sotto le insegne piratesche del popolarismo mariniano (da Franco Marini, presidente del Senato e primum movens del ticket Veltroni-Franceschini). I Ds fassinian-dalemiani si sono acconciati alla meno peggio, e oggi mascherano la propria desolazione nel vedere il meno gradito fra i postcomunisti ripuliti nelle acque kennedyane manifestarsi come un prodotto deideologizzato, ecumenico quanto basta e quasi poetico nella sua finta debolezza.
Ma il cinismo veltroniano, se non si muta in decisionismo, è destinato a subire il ricatto degli oligarchi contraenti che l’hanno scelto come figura di garanzia. In altre parole: quel che un giorno Carlo De Benedetti disse di Prodi («Un amministratore straordinario votato a farsi presto da parte per lasciare il campo ai giovani») potrebbe presto riguardare anche lui, anche Veltroni. Sospeso a metà tra la mezza bugia d’una palingenesi democrat all’americana, su cui nessuno (neanche i più ottimisti) può davvero giurare, e la promessa di uscire dalle segreterie del potere per collegarsi al cosiddetto popolo delle primarie, Veltroni dovrà anzitutto stare attento a non deludere i grandi sponsor della sua maxi operazione: Corriere della Sera e Repubblica. Vale a dire il patto di sindacato più litigioso del mondo, Rcs, abitato da confindustriali antiprodiani in cerca di nuovi eroi terzisti e vecchi banchieri postprodiani; e quel gruppo Espresso oggi stanco di Prodi, ma che dell’ulivismo aveva fatto una bandiera ideologica fino a negare ogni cittadinanza alla sola ipotesi di un accordo minimale con l’opposizione uscita quasi vittoriosa dalle elezioni del 2006. Adesso questi due bastioni si disputano il successo del sindaco di Roma con la consapevolezza che il figlio ha finalmente i numeri che gli servono per togliere di mezzo il padre, come un male non più necessario. Al fondo della questione c’è la necessità di tenere distante lo spettro eterno del ritorno berlusconiano, i ruggiti dell’antipolitica corazzati da Beppe Grillo e Antonio Di Pietro (con l’oscillante complicità di Gianfranco Fini), la sempreverde impressione che il carnevale del Partito democratico possa trasformarsi nella sconcertante delusione adombrata dal famigerato mercanteggiamento quotidiano fra i soliti gruppi di potere, in nulla dissimile dalla pratica che ha reso impopolari gli attuali leader dell’Unione.
Ero meglio farlo all’opposizione
Ecco, per evitare tutto questo, per rendersi credibile e fresco agli occhi di un elettorato maldisposto verso il centrosinistra più di quanto la mobilitazione di domenica possa lasciar immaginare, Veltroni dovrà accorciare le aspettative di sopravvivenza prodiane e prepararsi all’urto di elezioni anticipate. Sarà quella l’autentica registrazione anagrafica del Pd, un partito che sarebbe nato migliore se a ospitarlo in grembo fosse stato un centrosinistra consegnato all’opposizione, e che potrebbe diventare una cosa scintillante e seria, paradossalmente, attraverso una sconfitta rigeneratrice e pilotata dalla finta gentilezza del segretario Walter. Che è già molto più di un segretario, in verità, ma fino a prova contraria è ancora qualcosa di meno del grande rinnovatore atteso dai riformisti.
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