
Il granello di sabbia finito nel Mes

Articolo tratto dal numero di gennaio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Stretto a metà tra il voto umbro e la fiammata delle sardine, il Meccanismo europeo di stabilità ha occupato, a inizio dicembre 2019, la scena politica diventando oggetto di battaglia politica al massimo livello. Poi, in attesa che con i primi mesi di quest’anno si arrivi al dunque, l’argomento è tornato nell’alveo di silenzio che l’ha caratterizzato fino a lì.
In sé, che il dibattito sull’integrazione europea esca dagli auspici pensosi di qualche editoriale e finisca nelle piazze e nei talk show, dovrebbe essere salutato da tutti, a cominciare dai cantori delle magnifiche sorti del destino comune delle istituzioni dell’Unione, come un segnale positivo. Peccato che il tono della discussione abbia presto preso le pieghe allucinate di molta temperie attuale: alle accuse di tradimento e svendita del paese a forze straniere si è risposto mediamente con un classico “straw man argument”: «Allora ditelo, che volete uscire dall’euro». Senza che la maggior parte delle persone ci capisse nulla.
Cos’è il Mes? Vale la pena accapigliarsi tanto? Nato come misura di emergenza nelle drammatiche settimane della crisi greca del 2010, alle origini si tratta di una modalità eterodossa e non prevista dai trattati per istituire un meccanismo assicurativo volto a placare l’aggressione speculativa sui debiti sovrani di paesi dell’eurozona in difficoltà (allora la preda era Atene, con Madrid e Roma pericolosamente sullo sfondo).
A dare una svolta alle finalità di questa “polizza”, resa necessaria dal fatto che la Bce per statuto non può acquistare titoli alle aste e azzerare così gli spread, è la famigerata “passeggiata di Deauville”, amena località in cui il duo Angela Merkel-Nicolas Sarkozy elabora il cosiddetto coinvolgimento del settore privato, ossia teorizza la possibilità di un default controllato sui possessori dei titoli a rischio. Tradotto: hai 100 euro investiti in un bond greco? Ne ricevi 80 alla scadenza.
Secondo i critici, è il modo perfetto per tutelare le massicce esposizioni delle banche di Berlino e Parigi verso la Grecia. Gli aiuti diretti al paese ellenico – cui partecipa anche l’Italia, in ragione del Pil – hanno la caratteristica di spostare l’esposizione dagli istituti privati agli Stati. Da questo tentativo che pare complicato giudicare un successo, soprattutto per i greci, nasce l’Efsf: un fondo di diritto privato con sede in Lussemburgo che ha il compito di “istituzionalizzare” questi aiuti. Il salvastati è il papà del Mes, nuova struttura che ne assorbe e amplia i fondi dal 2011-2012.
Regolato da un trattato, il Mes – affidato a un direttore generale, il tedesco Klaus Regling, è gestito da due board: quello che comprende i 19 ministri dell’Economia in carica dell’eurozona, e quello dei rispettivi direttori generali del Tesoro dei 19 Paesi. Serve, in pratica, a intervenire laddove i paesi facciano richiesta, imponendo condizionalità tese a garantire la solvibilità dei prestiti medesimi.
La coppia Efsf-Mes agisce in Portogallo, Cipro, Spagna e Irlanda, paesi cui la Troika detta le “riforme” da attuare in cambio di fondi. L’Italia contribuisce in totale per circa 60 miliardi di euro, sommando tutti i contributi: terzo “donatore” dietro Germania e Francia. Dello strumento, complice il periodo di relativa bonaccia finanziaria tra il “whatever it takes” di Mario Draghi (luglio 2012) e il riacutizzarsi di dubbi sulla tenuta dell’eurozona tra il 2018 e il 2019, non parla più nessuno per anni.
È il giugno 2018 quando, a Meseberg, la nuova coppia leader dell’Ue, Merkel e Emmanuel Macron, stila una dichiarazione sulle priorità dell’avanzamento dell’eurozona. Tra queste, una riforma del Mes che comprenda il cosiddetto “backstop”, cioè la possibilità di intervenire in crisi bancarie, e un criterio di giudizio sulla tenuta del debito dei paesi. Sono le linee guida alla base della tanto discussa riforma. Discussa, però, a giochi fatti.
Quando, all’Eurogruppo di dicembre 2018 e a quello del giugno 2019, entrambi partecipati dal ministro dell’Economia del governo Lega-M5s, Giovanni Tria, vengono adottati i testi chiave della riforma, Parlamento e opinione pubblica sono totalmente ignari. La richiesta di un manipolo di parlamentari e membri di governo di accedere ai testi, lo si saprà mesi dopo e a esecutivo mutato, viene esaudita (giugno 2019) da un funzionario del Tesoro con la “preghiera” di visionare bozze parziali, in inglese, e il divieto di fotografare, fotocopiare, prendere appunti.
Un assist per Deutsche Bank
Poco dopo, l’unico dibattito parlamentare porta a una risoluzione M5s-Lega che chiede al premier di non sottostare ad accordi che «prevedano condizionalità che finiscano per penalizzare quegli Stati membri che più hanno bisogno di riforme strutturali e di investimenti», e comunque a informare il Parlamento prima di ogni deliberazione definitiva. All’Eurosummit successivo cui partecipa Giuseppe Conte, però, i testi arrivano blindati. Questi vertici informali non prevedono votazioni palesi, né verbali, né documenti che certifichino le posizioni dei singoli paesi: quindi ha ragione sia chi dice che il premier non ha atteso alla lettera la risoluzione, sia chi afferma che non sono stati compiuti passi definitivi.
Ma di tutto questo l’opinione pubblica viene a conoscenza solo a novembre, quando alcuni allarmi “istituzionali” e insospettabili (Ignazio Visco, Carlo Cottarelli, Giampaolo Galli) concentrano l’attenzione su aspetti potenzialmente pericolosi del nuovo Mes. Anzitutto due: la riforma prevede una distinzione tra chi può accedere a linee di credito precauzionali (in breve, i paesi con basso debito e deficit, quindi non l’Italia) e chi può accedere a linee emergenziali, che impongono le famose condizionalità. Qui fa capolino la modifica più temuta: la possibilità che venga chiesto di ristrutturare, ancorché in modo non automatico, il debito. Il default controllato alla greca per un paese come l’Italia, in cui il 73 per cento del debito pubblico è in mani domestiche, significherebbe una specie di patrimoniale al cubo con effetti devastanti sulle nostre banche. Visco parla di «enormi rischi»: la sola eventualità che possa essere determinata la ristrutturazione può favorire la fuga dagli stessi titoli che si vogliono proteggere.
Secondo punto delicato, sollevato dall’ex ministro Giulio Tremonti: l’introduzione del backstop, unita alla possibilità che il Mes finanzi un fondo per aiutare la risoluzione di crisi bancarie, è visto come un assist per le banche tedesche, in particolare per Deutsche Bank, che da anni versa in difficoltà dovute alla presenza di titoli tossici e alla frenata dell’economia tedesca. Dunque, è il senso delle perplessità muscolarmente imbracciate dalla Lega, rischiamo di versare altri denari avendo la certezza che non potremo mai beneficiarne, se non a prezzo di condizioni che azzererebbero le leve di politica economica di qualunque governo, per tacere dei rischi sulla tenuta del sistema bancario e sulla ricchezza privata.
La decisione dei grillini
È in questo clima che Matteo Salvini scende in piazza raccogliendo firme per “abolire il Mes”, il Pd si chiude a riccio definendo «irrilevante» la riforma e «inemendabile» il testo, il M5s passa dalla «liquidazione» del Mes del programma elettorale 2018 al sostegno alla risoluzione che, assieme ai dem, a dicembre di fatto ne avalla l’iter, subordinando la firma finale a un passaggio in Aula. A Conte spetta il compito di tenere insieme tutto, inventandosi con il ministro Gualtieri di aver strappato modifiche e tempo per riflettere. Versione smentita dal presidente dell’Eurogruppo e dal commissario Valdis Dombrovskis, che continuano a ritenere i primi mesi dell’anno come scadenza per la firma in attesa, poi, delle ratifiche nazionali. Prima di allora, i grillini dovranno decidere se diventare forza di sistema ed europeista, schierarsi per il no, o spaccarsi. Il bivio è solo rimandato.
Foto Ansa
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