
Il giorno, i ragazzi, la notte (e Niki, il numero uno)
Bhe, ecco… io, ho sempre avuto questa mania di essere il numero uno, cazzo. Come si dice? Avevo un’ossessione che io dovevo dimostrare a tutti che ero il più forte, il più bravo, il più figo. Io, io, io. E degli altri non mi importava proprio niente. Oggi è diverso, so anche ascoltare, so anche dire «hai ragione tu», cosa questa che prima non avrei mai detto. Un giorno ho telefonato alla mia ex moglie e le ho detto «cara, la sai una cosa? È solo mezzogiorno e ho già detto a tre persone diverse “hai ragione”».
Dai boy scout alla disco
I miei zii avevano un bar e io, per racimolare qualche lira, li aiutavo. Perché in casa mia, mia madre mi ha sempre fatto questo discorso: «io ti mantengo se tu studi, altrimenti arrangiati». Insomma mi dava le mille lire per il gelato e poi mi chiedeva il resto. E io stavo male dal ridere perché ho sempre avuto la manina lunga. Oddio, non credere che fossi un cazzone, ero anche un bravo ragazzo, andavo all’oratorio, avevo fatto il boy scout. All’oratorio di san Marco, con don Pigi, io mi divertivo. Se oggi ritornassi sono sicuro che saprei orientarmi alla grande, lo conosco a memoria. Comunque, sta di fatto che un tizio che frequentava il bar dei miei zii un giorno mi disse «perché non vieni a lavorare con me?». Questo tizio era il proprietario di una discoteca il “Merry go round” (quella con il bar che assomigliava a una gabbia, hai presente?) e così iniziai. Lavoravo al bar dalle 19 alle 24, il resto della giornata (e della notte) la passavo al Merry. Mi ero anche iscritto a Ingegneria ma tu immagina quanto studiassi. E poi con la discoteca guadagnavo molto di più: al bar 6mila lire l’ora, con la disco anche 25mila. E mi scopavo tutto quello che si muoveva. La verginità l’avevo già persa, certo. Ma fu allora che iniziai e non mi fermai più. Fidanzato, sposato che mi fregava? Chiavavo di brutto e avevo sempre il portafoglio pieno. Poi un altro tizio, uno con il grano che aveva in testa l’idea di creare un club per vip, mi prese a lavorare con sé. Il tipo aveva speso una vagonata di miliardi per tirar su un locale che si chiamava “Agorà” che avrebbe dovuto essere il posto dei vip, ma no che dico?, dei vippissimi. Mi ricordo ancora la prima volta che entrai; aveva tutti questi tavoli rotondi con l’intarsio in legno scuro sui bordi. Veramente un locale di gran classe. Sta di fatto che la cosa andò male, non funzionò e io levai le tende. Perché nel frattempo mi ero creato un altro contatto. Era il 1986 e andai a lavorare in una discoteca alla Maddalena, in Sardegna. Fu una stagione fantastica e le mie tasche si facevano ogni giorno più pesanti. Pigliavo veramente una vagonata di rano per quei tempi. Terminata la stagione tornai a Milano. Al tempo ero paninaro, poi ho fatto anche l’alternativo di sinistra. Hai presente quelli che hanno i capelli lunghi? Ecco così. Io ero uno coi capelli lunghi.
L’amicizia è un debito
Era il settembre dell’‘86 e iniziai a lavorare al “Rolling Stone”. Al Rolling ho lavorato dal settembre ’86 al dicembre 2000, ci ho lasciato attaccato il cuore. Mi ricordo la prima volta che sono entrato nel locale: aveva un bar che era una roba assurda. Era in mezzo alla sala, la gente si metteva intorno ma per riuscire ad acchiappare quello che aveva ordinato doveva salire sul poggiapiedi e allungarsi perché aveva ‘sto bancone enorme e quello era l’unico modo per acchiappare la tua cazzo di birra. Così erano tuttì lì, in ‘sta posa ad angolo retto e sudavano per raggiungere la loro birra. A me sembrava un’astronave. Al Rolling ho fatto di tutto: il barista, il responsabile del bar, il vicedirettore.. per poi ricominciare dall’inizio perché era cambiata la gestione. Comunque ho cominciato a fare i soldi anche se continuavo a spenderli senza accorgemene. Ma non è che li investivo, capisci? Cioè non è che li investivo, che so, in qualche minchia di immobile. Li buttavo via e basta. Soprattutto in vestiti. Una volta mi sono comprato un paio di pantaloni che sarebbero stati anche “normali” se non fosse che avevano un risvoltone sulle gambe che tu dovevi girare e ti comparivano tutte delle bande colorate. Una specie di Arlecchino. Ma io ero così. Vedevo una cosa? Al momento mi piaceva? Me la compravo. Mi avevano quasi regalato un’Alfa 33 (da giovane avevo la 500). Nel maggio dell’ 88 mi son comprato un Mac SE. Cazzo, un Mac SE. Prima avevo l’Amiga. Mi sentivo figo ad avere il Mac SE, ora mi vien da ridere solo a pensarci. Ma sai, allora io avevo sempre la mia ossessione del numero uno per cui anche sui soldi io dovevo dimostrare a tutti di averne. Non solo di averne ma di averne tanti, tanti. Così tanti che li prestavo a tutti. Un milione a te, due a te, cinque a quell’altro. Una volta ho prestato cinque milioni ad un mio carissimo amico che me li ha restituiti a rate. Anzi, a dir la verità, mi deve ancora mezzo milione. Ogni tanto lo chiamo e per sfotterlo gli dico: «gioia, quand’è che ti decidi a ridarmi i soldi?». E sai quello che mi ha detto una volta? «Niki, io il mezzo non te lo ridò. Perché se ti restituisco questi soldi tu poi non avrai nessun motivo per ritelefonarmi e quindi non avremo più motivo di risentirci. Ciò che ci tiene assieme è ‘sto debito».
Rolling Stone e Propaganda
Al Rolling io gli voglio bene, quasi fosse il mio terzo figlio. Ho fatto grandi annate lì, tipo quelle ‘94-‘95 o ‘95-‘96. Anche se il top l’ho raggiunto al propaganda tra il ‘97 e il ‘99. Il proprietario ad un certo punto mi diede in mano anche la discoteca “Propaganda”. Ero direttore del Rolling Stone e del Propaganda contemporaneamente. Al Propaganda io ho dato l’anima, sia chiaro, ma è il Rolling che io ho amato. Il Rolling è un locale con il cuore, ha un’anima ed il suo pubblico è fantastico. Io per spiegare la differenza fra i due faccio questo esempio: al Rolling se toccavi dentro uno, questo si girava e ti diceva «tranqui tipo, bella lì» e ti batte un cinque. Al Propaganda no. Se sbattevi contro uno, soprattutto i ragazzini che venivano al sabato, questo ti faceva «dove cazzo guardi». E poi il Rolling la gente lo sente come il suo locale. Se tu metti su una musica che non gli piace vengono lì e s’incazzano, ti puntano l’indice contro: «oh cambiate musica». Al Propaganda invece se non gli piace se ne vanno, sono più fighetti. Al Rolling sono rockettari, magari meno belli, ma con un cuore grande così. Comunque io ci ho messo l’anima per tutti e due. Il casino più grosso era l’insonorizzazione. Cioè, quando tu gestisci una discoteca il cazzo più grosso che hai da smazzarti è quello del casino della musica. La gente si lamenta, ti rompe i coglioni perché vuole dormire e poi gli intasi la strada con tutte le macchine, fa fatica a posteggiare. Io, da direttore, ho sempre cercato di avere buoni rapporti con il vicinato. Oddio, non sempre ci sono riuscito. E poi io ho ‘sto carattere aggressivo per cui tutti devono fare quello che dico io. Per me l’altro non esiste. L’unica utilità per quelli che mi circondavano, pensavo allora, era che dovevano confermare il fatto che io avevo ragione. Io ragionavo così, capisci? Non sei d’accordo? E io ti schiaccio. Poi, chiaramente, ogni tanto pigliavo le mazzate. Perché è chiaro, se tu tratti gli altri come delle merde è chiaro che gli altri, finché tu sei il capo non fiatano, ma appena tu sei in difficoltà cercano di fotterti. Ma me ne sarei accorto poi, con gli ineressi, che «chi semina vento, raccoglie tempesta». Una volta ho avuto a che fare con una portinaia di un palazzo vicino al Propaganda, un po’ rompiballe, ma con tutte le ragioni, che si lamentava per il rumore. ‘Sta tizia mi invita a casa sua per un caffè, per farmi vedere che è un vero casino. Io ci vado, mentre mescolo con il cucchiaino il caffè, telefono e dò l’ordine ad un mio collaboratore di avviare la musica. Intanto la portinaia inizia a lamentarsi; dice che la situazione è insopportabile, che è un casino, che non riesce a dormire, che nel palazzo tutti si lamentano. E io, ironico, «non mi sembra che ci sia molto rumore. La musica è partita e qui c’è silenzio. Sì, si sente un brusio in lontananza ma niente di che. È sopportabilissimo» e vado avanti per cinque minuti con questa solfa, quasi incazzandomi. Vado alla finestra, la apro per farle vedere che anche a vetri aperti non si sente niente, è tutto perfettamente tranquillo, è tutto ok. Mentre apro i vetri mi squilla il cellulare e il mio collabotratore mi dice «Niki, adesso partiamo». Oh, mamma, non ci crederai, ma sembrava il terremoto. Le tazzine sul tavolo ballavano al ritmo di Tuttifrutti. Tum, tum, tum. Un bordello. Me ne sono andato con la coda fra le gambe. Poi però sono andato dal proprietario e gli ho detto: «dobbiamo insonorizzare». E abbiamo speso un pacco di soldi per mettere in regola tutto il locale. Anche il Rolling aveva i suoi cazzi, insonorizzazione e parcheggio soprattutto. Ora, oggi ti posso dire che effettivamente è un casino. Pensa che un giorno sono tornato al Rolling perché volevo passare a salutare un paio di amici. Quando lavoravo lì avevo il mio parcheggio riservato, arrivavo in macchina, tac, parcheggiavo e entravo. Quella volta che son tornato ho girato per venti minuti, neanche l’ombra di un buco dove infilare l’auto. Son tornato a casa.
Volevo arrivare
Lavoravo, lavoravo, lavoravo. Avevo la mania del numero uno. Te l’ho già detto? Era un’ossessione. Accentravo tutto su di me perché pensavo che gli altri non fossero alla mia altezza e quindi facevo tutto io. Iniziavo alle dieci di mattina e finivo sempre di mattina, alle 4 o alle 5. Più volte, dopo aver tirato giù la saracinesca del locale, non me ne andavo finché qualcuno non mi svegliava dalla mia trance: «Niki, abbiamo chiuso. È finita. Vai a casa». Tutti i giorni così. Perché? Volevo arrivare. Dove? Non lo so. Volevo arrivare. Al tempo collaboravo con dei tipi fantastici. Mi trovavo bene. Alessandro, Philippe e Maurice. Gente a posto, in gamba. Alessandro, Alessandro Boccardo, in particolare, era uno forte, uno che una volta mi diede una lezione di vita. Uno pulito, che è un’eccezione in questi ambienti. Gira sempre con uno zainetto sulle spalle. Beve solo acqua minerale. Alessandro è un’eccezione perché, beh capiscimi, anche io ci sono cascato. Non è facile rimanerne fuori. La vita è frenetica e uno deve sempre essere al top, deve essere brillante, deve fare il fenomeno.
Le mazzate
Poi ho iniziato a prendermi le prime mazzate. La prima mazzata me l’ha data il mio capo, Salvadori, che un giorno mi chiama e mi dice di mollare il Propaganda e di occuparmi solo del Rolling Stone perché la ristrutturazione era costata troppo e bisognava assolutamente rientrare. A me! Al numero uno! Questo significava che dovevo fare i conti anche con altra gente, con i “direttori artistici”. Io ero abituato a decidere tutto, a far tutto di testa mia e ora mi trovavo fra le palle ‘sta gente. Per l’amor di Dio, tipi in gamba, che il loro mestiere sapevano farlo. Ero io la testa di cazzo che non riusciva a digerire la questione. Loro avevano orari diversi dai miei e lavoravano in modo diverso da me. Io pretendevo che tutti si adeguassero al mio modo di agire, al mio pensiero. Io ero il centro del mondo, gli altri avevano solo il compito di ruotarmi intorno. Questo è stato il primo vero schiaffo al mio orgoglio. Il lavoro non andava un granché, si era tutti un po’ stanchi, io covavo dentro di me un odio incredibile contro tutto e tutti. Ho speso 3 miliardi e mezzo per ammodernare il Rolling Stone ho “bucato” su due o tre questioni; insomma l’aria era pesante. Ed era pesante anche a casa, con mia moglie (sì mi sono sposato e ho due figli bellissimi). Sebbene avessimo anche deciso di comprare una casa in piazza Napoli la cosa non girava per il verso giusto. La sera del 15 marzo ‘99 ho avuto l’ennesima litigata con lei. La mattina del 16 marzo mi ha lasciato. Mi ha guardato e mi ha detto di andarmene di casa. Devi sapere che io ho sempre pensato che mia moglie era in debito con me perché io le avevo dato la possibilità di sposarmi. Pensa che le avevo pure imposto i testimoni, gente che lei non conosceva nemmeno tanto bene. Comunque lei ora mi mollava. Il mondo, il mio mondo, cominciava a cadermi addosso ma io continuavo a negarlo, ero troppo orgoglioso per ammettere che avevo bisogno di aiuto. Covavo in me una rabbia assurda. Sarò sincero, ho pensato più volte di farla finita. Non so se ci ho mai provato veramente. Ci ho pensato seriamente, questo sì. E piangevo, piangevo di brutto. Andavo a 200 all’ora in tangenziale (e tieni presente che io prima di allora in macchina andavo sempre molto piano) e pensavo «adesso non faccio la curva». Una volta c’era con me in macchina un amico che mi diceva «Niki che fai? Stai calmo. Ma no, ma no, non ci pensare». Un’altra volta sempre in macchina, questa volta da solo, sfrecciavo in città, in Corso XXII Marzo, quando mi si è affiancata una macchina dei Carabinieri. Mi bloccano, uno dei due si avvicina e mi bussa al vetro. Io abbasso il finestrino e questo mi vede, gli occhi gonfi e rossi per il pianto e per tutto il resto. Il caramba si gira e dice al suo compare: «andiamo và». La casa in piazza Napoli era pronta. Ho lasciato casa mia, mia moglie e i miei figli. Avevo pochissimi soldi in tasca. Tanti li avevo buttati via, altri li avevo messi in fondi bloccati, non li potevo prendere. Ma non volevo ancora rinunciare all’immagine che mi ero creato. Temevo ancora moltissimo il giudizio degli altri. Ti faccio un esempio: avendo pochi soldi, dovevo limitarmi nelle spese. Non potevo permettermi, che so, la Mercedes ultimo modello o la Bmw. Quelle sono macchine che appena prendi l’ultima uscita sei già in ritardo sugli altri e devi comprartene un’altra. Così mi son preso una Saab. Perché la Saab è la macchina dell’“alternativo”. Non la devi cambiare in continuazione. È una Saab, ha una storia a sé, nessuno ti dice: «Niki sei rimasto indietro». Tu sei l’alternativo, quello della Saab. Lo stesso ragionamento per la moto: mi sono preso una Triumph, non una Harley. Perché così, spendendo relativamente poco, potevo mantenere una certa immagine senza passare per un pidocchio.
La sera di Sant’Ambrogio
Parliamoci chiaro: quando sei a terra gli amici su cui contare sono quattro o cinque. E io facevo una fatica bestia ad ammettere che ero a terra. Lavoravo sempre in maniera più svogliata, una volta mi sono presentato al lavoro alle sei di pomeriggio. Mi ero ormai trasferito definitivamente nella casa di piazza Napoli. Spesso quando andavo a letto passavo delle ore immobile, con lo sguardo fisso, come catatonico. Ricordo che la sera di Sant’Ambrogio arrivai a casa tardissimo. Entrai e mi sentii tremendamente solo. Vidi il mio letto. Presi il materasso e lo buttai per terra. Da quella sera dormo sul quel materasso per terra, a fianco del mio letto. Finché non troverò la donna della mia vita, dormirò lì.
Qualcosa è cambiato
Non ce la facevo più. Dovevo far sapere al mio capo, Maurizio Salvadori, che ero a pezzi. Lo cercai più volte per dirglielo, non lo trovai mai. Così, era il 28 dicembre 2000, una sera uscii a cena con un’amica in comune, una ragazza fantastica, che aveva lavorato con me al Propaganda. Si chiama Laura. Al ristorante giapponese mi sfogo. Piango come un disperato, le spiego tutto. Le dico che sono out. Il giorno dopo mi chiama Maurizio, a cui Laura aveva raccontato tutto e mi dice: «Niki prenditi due settimane di ferie». E io «no guarda Maurizio, tu non hai capito. Io qui devo mollare tutto». Sarei rimasto fino al 10 gennaio, per spiegare a Laura che cosa doveva fare, come si mandava aventi il locale. Insomma, le avrei insegnato il mestiere perché ora toccava a lei. La sera stessa ero in ufficio, me lo ricordo come se fosse oggi, ed entrano due miei amici, Massimiliano detto Tato e Roberto. Entrambi mi avevano parlato molte volte del buddismu (quello Nichiren e Daishonin), di come si prega, di come affrontare le difficoltà e di come avrei potuto cambiare la mia vita. Mi avevano anche spiegato, grosso modo, alcune preghiere. Quel giorno entrarono in ufficio e mi salutarono «ciao Niki, come va?». Io non so spiegare come, ma sentii in loro una forza e una gioia di vivere che non avevo mai visto prima. Quella sera cercai di recitare qualche preghiera buddista di cui Tato mi aveva spesso parlato. Prima seduto sulla tazza del cesso, poi sdraiato sul materasso. Così, come mi venivano, sbagliando le parole e stravaccato in qualche maniera. Qualche giorno dopo andai con lui e un altro amico al derby. Durante la partita gli spiegai la mia situazione e lui mi spiegò l’esatta postura da tenere durante la recita e mi diede un libretto di preghiere che da allora recito al mattino e alla sera. Ricordo anche che l’altro compare mi diceva «Niki, stasera ho due tizie che ce la danno. Vieni?». Guarda, io è dal 2 gennaio che non tocco più una donna. Quella notte, tra l’altro, fu un vero schifo. Ero con due donne, feci sesso “brutto”. Sai quando lo devi fare solo perché “devi”? Prima, cazzo, se non chiavavo un giorno sì e uno no, era un evento. Oggi basta. E, sinceramente, non ne faccio un dramma. Ricomincerò solo il giorno che saprò di aver trovato la “donna della vita” che sappia donarmi la felicità. Comunque ora è tutto cambiato. Anche con la mia ex moglie ho riallacciato i rapporti. I miei figli mi chiamano spesso al telefono, mi cercano. E pensa che prima era come se non lo conoscessi. Tornavo a casa che loro dormivano, loro si alzavano quando io dormivo. Spesso pensavo «sono una testa di cazzo. L’unica cosa che ho fatto di buono nella vita che sono questi due figli, è come se non li avessi». E ci soffrivo. Sinceramente, mi faceva proprio male.
Rinascere a 36 anni
Son morto e rinato a 36 anni. Ecco cosa mi è successo. Ora lavoro alla Punta dell’Est, mi trovo bene con i miei colleghi, con i ragazzi che lavorano qui con me. Con Giorgio Cioni, il mio capo attuale, ad esempio. O con Anna Portatadino che è una come me. Ci scazziamo spesso perché abbiamo un carattere simile (lei è il mio alter ego al femminile) eppure ogni giorno che passa il rapporto si fa più, come dire?, bello. Ecco sì, io ho toccato il fondo in tutti i campi, ho mangiato merda per un sacco di tempo, ma ora sono più tranquillo e godo quando la gente mi dice: «Niki, ti vedo cambiato». Sono stato ad un passo dal farla finita ora invece vado avanti. Il terreno su cui sono caduto è lo stesso su cui mi sono rialzato.
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