
Il dilemma irakeno
M.Finkielkraut, nel suo ultimo libro lei ci ha messo in guardia dalle conseguenze della posizione di coloro che nella realtà non vedono mai problemi o dilemmi di fronte ai quali la ragione ed il senso morale esitano, ma sempre e soltanto scandali, materia di indignazione. L’eventualità, sempre più probabile, di un’azione militare internazionale contro l’Irak rientra, a suo parere, nella categoria del dilemma o in quella dello scandalo?
Per me questa guerra – o meglio: l’eventualità di questa guerra – è un vero dilemma, ma purtroppo un po’ dappertutto in Francia e, credo, in tutta Europa è percepita e denunciata come uno scandalo. Gli oppositori di un intervento militare in Irak non hanno alcuna esitazione: invocano contro questa guerra contemporaneamente il diritto internazionale e l’incolumità del popolo irakeno. Ora, se fossero lucidi e lungimiranti, dovrebbero riconoscere che rifiutando la guerra abbandonano il popolo ad un tiranno a tal punto sanguinario, che si può dire che abbandonano il popolo irakeno al suo boia. E dovrebbero pure riconoscere che il diritto a cui si appellano non è il diritto umanistico a cui spesso fanno riferimento, ma il diritto realista, quello dei rapporti fra gli Stati, che regola senza tanti sentimentalismi i rapporti di forza fra le potenze. Da quando è stata deificata, l’idea di umanità ha fatto irruzione nel diritto internazionale e ha disarcionato il principio di sovranità. Se essi ascoltassero la voce di questo umanismo, dovrebbero invocare l’intervento precisamente in nome del diritto di ingerenza. E invece oggi proprio fra gli avvocati del diritto all’ingerenza sono particolarmente numerosi coloro che si oppongono all’intervento e che fanno finta di credere che quando si appellano al diritto internazionale, è al diritto di tipo umanista che fanno appello. Siamo di fronte ad un’ambiguità e ad una malafede che meritano di essere svelate. Ma d’altra parte mi è difficile, per quanto mi riguarda, sostenere senza esitazioni e senza riserve l’intervento militare. Le mie obiezioni non sono morali, ma politiche: se dessi ascolto alle mie convinzioni, sarei favorevole all’intervento, perché sarebbe effettivamente l’unico modo per liberare il popolo irakeno e potrebbe avere come effetto di cambiare la situazione generale in Medio Oriente, oggi catastrofica. Ma i sostenitori dell’intervento – che d’altra parte non sono certo degli idioti – si muovono sulla base di uno schema troppo perfetto: non tengono conto delle conseguenze possibili della loro azione. Se gli americani fanno la guerra all’Irak e se il mondo arabo-musulmano si infiamma, il terrorismo che si vuole combattere rischia al contrario di aggravarsi e di trovare sempre più numerosi candidati per attentati suicidi. Perciò sono molto esitante, sono diviso fra l’idea che in Medio Oriente non si possa andare avanti così come adesso, e l’idea che si rischi di mettere in moto un meccanismo terribile con un intervento che non avrebbe motivazioni abbastanza chiare, e soprattutto, non sarebbe accettato dalla comunità internazionale dal momento che gli ispettori dell’Onu non hanno trovato armi di distruzione di massa. Ripeto: siamo davanti ad un dilemma, che viene trattato come se fosse uno scandalo.
Un voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu a favore dell’intervento militare a causa di una violazione della risoluzione 1441 da parte dell’Irak, farebbe ai suoi occhi la differenza?
Enormemente. Resterei inquieto, ma approverei l’intervento. Farebbe una gran differenza. Ma non credo che farebbe la differenza per la maggior parte dell’opinione pubblica europea. Temo che continuerebbe a restare contraria ad un intervento e che il fossato fra America ed Europa crescerebbe ancora.
Insomma, nemmeno il massimo coinvolgimento da parte dell’Onu può togliere al problema la sua natura di dilemma…
Credo che stiamo assistendo ad una battaglia ideologica paradossale. Gli avversari dell’intervento si credono più morali, più virtuosi dei loro oppositori, mentre sono proprio loro che hanno scelto la via del pragmatismo, ammantata di moralismo. Per gli interventisti, il mondo arabo di oggi è l’equivalente dell’Europa dell’Est del tempo del comunismo: il baluardo di un sistema che è una minaccia per l’Occidente. Essi vogliono, attraverso una guerra destinata a creare un Irak laico e pluralista, rafforzare il modello democratico nel mondo arabo, ridurre la dipendenza dell’America dall’Arabia Saudita e obbligare i regimi circostanti a riforme politiche ed economiche. È uno schema seducente, ma il problema è che è difficile rinchiudere la realtà in schemi, in equazioni. Anche perché sappiamo che nei paesi arabi laici, nemici dell’islamismo, vige un radicalismo ideologico non inferiore a quello islamista: l’antisemitismo dei paesi arabi radicali, per esempio, non ha nulla da invidiare a quello degli islamisti. Dunque abbiamo ragione di mostrarci scettici davanti ad un progetto tanto ambizioso. D’altra parte, occorre riconoscere che la perpetuazione dello status quo nel mondo arabo-musulmano è catastrofica. Vista la situazione, la guerra non mi sembra la soluzione, ma desidererei che i suoi avversari avessero il coraggio di proporre un altro schema e dessero prova di una visione della situazione davvero lucida. Ho paura che pecchino anche loro di accecamento. In una certa maniera, ci troviamo di fronte a due accecamenti antagonisti: l’accecamento di coloro che, ipnotizzati dalla propria visione, non vogliono vedere le conseguenze negative del processo che rischiano di innescare; e l’accecamento di coloro che sono talmente ostili alla guerra che non vogliono vedere la realtà spaventosa che presenta oggigiorno il mondo arabo-musulmano.
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