Il diavolo si nasconde sempre nei dettagli. Quel dettaglio è Kubrik

Di Frangi & Stolfi
24 Marzo 1999
Senza ombrello, sotto il temporale.

Quando le dichiarazioni di grandezza sono troppo unanimi, è sempre bene mandare avanti qualche sospetto. Su Stanley Kubrick, il grande regista appena scomparso, il fronte dei plaudenti non ha mostrato la minima incrinatura. Ci è capitato di sentire dire che con lui è morto il più grande regista della storia del cinema. Siccome in queste righe si vuole andare controcorrente, abbiamo voluto remare a quattro mani, cioé firmare il pezzo in due. Siamo due amici, legati da una passione per il cinema (non da una malattia) e da molto altro.

Allora, avanti con i capi d’accusa. Kubrick è grande, ma la sua grandezza è tale se non è censurata dallo scandalo. C’è del paranoico nell’essere grande di Kubrick, c’è del maniacale nel suo perfezionismo, c’è della perversione nella sua visione dell’uomo. Inutile farne un santino di testimone scomodo dei malesseri del nostro tempo. Quando i suoi film uscivano (vedi Arancia Meccanica e Lolita) hanno rivoltato molti stomaci. Ora se la capacità digestiva dello stomaco del tuttologo medio si è molto dilatata, questo non toglie che a noi Kubrick piace ricordarlo in questa sua dimensione intollerabile (contando che l’ultimo e spasmodico film così a lungo e così misteriosamente incubato, ci ridia il Kubrick più ributtanbte e più infognato nelle sue manie). Secondo capo d’accusa. Kubrick ha realizzato il più grande film generazionale della storia del cinema (Arancia Meccanica). Il più grande horror (Shining). Il più grande thriller erotico (Lolita). Il più grande film di fantascienza (2001 Odissea nello spazio). Il più grande sul Vietnam (Full metal jacket). Ha una grandezza senza smagliature. Perfetto tecnicamente, padrone in ogni istante della materia bollente che di volta in volta gli correva tra le mani, titanico nel suo coraggio e nel suo oltranzismo. Eppure a Kubrick è mancato qualcosa: la capacità di naufragare nel cinema. Ha sempre perfettamente chiuso il cerchio delle sue pellicole, come se avesse paura di farsi prendere la mano dalla storia, dalle immagini, dal tumulto del cuore. Ha saputo controllare tutto, anche l’avanzamento della linea del consenso su livelli inimmaginabili (e lui non si è mai posizionato oltre quei livelli). Non ce ne voglia nessuno se il cinema che amiamo è quello ti incalza come un fiume in piena, che ferisce con le sue imperfezioni, che non sa mai come chiudere perché resta sempre aperto come la vita. (I nomi? In ordine sparso d’amore – non di grandezza-: Akira Kurosawa, Robert Bresson, Michael Cimino, Roberto Rossellini, David Linch, Orson Welles eccetera, eccetera).

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.