
Il damerino dello schermo
L’ intervista, pubblicata nel 1996 sul mensile George, aveva fatto scalpore: due degli uomini più belli d’America, uno più giovane dell’altro di almeno una generazione si erano incontrati per parlare di cinema e politica. L’intervistatore era John Kennedy, novello direttore del mensile politico newyorchese, figlio della dinastia cattolica più potente d’America; l’intervistato era Warren Beatty, star di innumerevoli film che annoverava tra le sue conquiste le donne più belle del mondo, il sex symbol di Hollywood famoso anche per saper parlare di politica e per non aver mai avuto paura di criticare la Washington degli interessi finanziari, dei giochi sporchi, dei repubblicani vecchio stampo.
Quell’intervista a J.J.K.
Per ore e ore, nel corso di due serate, si erano parlati come due amici, anzi come il maestro e John: Beatty aveva molte cose da insegnare a questo giovane Kennedy che prima di intraprendere la carriera di giornalista aveva, anche lui come l’attore, considerato la strada della politica, dalla quale l’aveva dissuaso sua madre, e quella del cinema, dal quale l’aveva dissuaso ancora una volta sua madre. “Tu sei un attore che ha sempre amato la politica – gli aveva detto Kennedy mettendo i piedi sulla scrivania – ma dimmi, le due professioni hanno molte cose in comune?”. Beatty aveva sorriso, quel suo sorriso mezzo cinico e mezzo divertito di cui le cineprese si sono sempre innamorate da quando, ancora ventenne, aveva lavorato per il regista Elia Kazan che era diventato il suo maestro e che gli aveva insegnato a fare il cinema. E di cinema Beatty era vissuto: per 35 anni aveva fatto l’attore, il produttore e il regista, apparendo in più di 20 pellicole. La politica, quella invece l’aveva imparata parlando pubblicamente a favore di Robert Kennedy, durante la sua campagna elettorale del 1968 e nel ‘72, quattro anni più tardi, quando Beatty si era unito alla campagna presidenziale di George McGovern, per il quale aveva lavorato indefessamente per 18 mesi, inventando il concetto del concerto rock quale macchina da voti, convincendo Simon&Garfunkel a cantare per il senatore del Sud Dakota. E la sua politica era così decisamente pro democratica, così nettamente liberal, che era finito sulla lista dei nemici “most wanted” di Richard Nixon. “Beh – si era deciso a rispondere l’attore – vedi John, effettivamente le similitudini tra il mondo del cinema e quello della politica sono profonde. Se sei spinto dall’interesse per la gente, se t’interessa la popolarità, puoi scegliere indistintamente tra i due”.
L’autocandidatura del Beatty man Sono passati tre anni e Beatty in questi giorni ha dichiarato con tono semiserio di volersi candidare alla presidenza americana, una notizia che ha immediatamente avuto ripercussioni nel cinema, nel giornalismo e nella politica di un Duemila che vedrà la prima campagna elettorale post Clinton: e viene in mente la profezia di Norman Mailer che anni fa, quando un vecchio attore di nome Ronald Reagan aveva cominciato a raccogliere i primi consensi politici proprio a Hollywood, aveva detto: “Un domani, solo gli attori si candideranno alla Casa Bianca”.
Ma Warren Beatty è stata la prima star a mescolare la politica nei suoi film, molti dei quali erano stati scritti con un messaggio morale e politico ben preciso: c’era stato l’indimenticabile “Reds” (1981), la storia del comunista John Reed e del Greenwich Village anni Cinquanta, e “The Parallax view” (1974) in cui interpretava un giornalista sulle orme dell’assassino di un senatore americano, e l’ultimo “Bullworth”, storia di un politico che scopre il mondo della povertà nera e che dopo anni di bugie finalmente si decide a dire la verità, raccogliendo immediatamente migliaia di voti; un film che lui ha prodotto e diretto e che forse voleva essere un avvertimento: Beatty, si leggeva tra le righe, come il suo protagonista era pronto a candidarsi per mettere a soqquadro lo status quo della politica americana nella quale, come dice lui, i due partiti “sono diventati solo due macchine per raccogliere fondi elettorali”. Per farlo sembra disposto a correre il rischio di esporsi nella sua vita privata, quella di un playboy, di un giocoliere di Hollywood, di un uomo che aveva vissuto a fondo e senza remore gli anni Sessanta del “free love”. Un rischio che lui conosce bene: nel 1984 era l’amico più intimo di Gary Hart quando la sua campagna elettorale era stata stroncata dallo scandalo di Donna Rice, il primo grande scandalo amoroso che avrebbe spianato la strada per l’America alla bomba di Monica Lewinsky. Ed era stato Beatty, sbagliando, a convincere Hart a resistere fino all’ultimo, dicendogli che un’amante non gli avrebbe spezzato la carriera politica. Dodici anni più tardi, in quell’intervista per George, la questione delle donne di Beatty sarebbe riaffiorata, con tatto, nella domanda di John Kennedy: “Warren, hai mai pensato di candidarti?”. Sorriso: “Non lo voglio fare, altrimenti diventerei ossessionato dall’idea di essere eletto”. “E che ci sarebbe di sbagliato?”. “Se non sono bravo a rilasciare interviste, t’immagini come sarei noioso in campagna elettorale?”. “Beh, ma la lunga lista delle tue Gennifer Flowers renderebbe la tua corsa più che affascinante…”. “Si, ma ci devo pensare: diciamo che io ho il vantaggio di aver trascorso molti anni, anzi più di trent’anni, senza aver mai tradito mia moglie, poiché ero scapolo…”.
You are so vain Dal giorno di quell’intervista è passata molta acqua sotto i ponti: Beatty oggi è sposato con l’attrice Annette Bening, ha tre figli, e il suo nome non circola più nel mondo festaiolo dei single di New York o di Los Angeles.
Ma francamente il mondo dei media non è convinto che il protagonista di “Bonnie and Clyde” e di “Shampoo” sia pronto a gettarsi nell’arena politica di un’America che vuole sapere tutto, che insegue come un segugio la pista della cocaina di George W. Bush, dei possibili investimenti nascosti di Al Gore e che lo vivisezionerebbe in diretta nel prime time. La prima a dubitare che sia una cosa seria la candidatura del bel Warren è stata la giornalista del New York Times, Maureen Dowd, che ha scritto: “Oh, mio Dio, Warren è un maestro delle luci di scena, vanitoso com’è non si metterebbe mai in mostra senza il fondotinta giusto o senza un’illuminazione che gli risparmi qualche anno e qualche ruga”. La pensava come lei anche la cantante Carly Simon, che molti anni fa, quando lui le aveva spezzato il cuore si era vendicata dedicandogli la canzone “You are so vain”, sei così vanitoso.
Il gioco di Warren Ma Beatty, per chi lo conosce, non è solo trucco e vanità: è anche un uomo di un’intelligenza profonda, un uomo che legge e che capisce i gomitoli della lana politica. Un uomo che preferirebbe tessere un piano segreto piuttosto che gettarsi in bocca ai media. Certo, finora lascia aperta la possibilità di una candidatura e per farlo ha scritto un fondo per il New York Times, ammettendo di volersi candidare o per il partito democratico o per quello indipendente: “Qualcuno mi ha chiesto di rischiare 40 anni di fama cinematografica in qualche mese di campagna elettorale… e ci sto pensando”.
Ma il suo gioco, come sempre, è ben più sottile: forse vuole semplicemente intromettersi nei giochi aperti nel partito democratico tra Bill Bradley, che per il momento guida i sondaggi, e Al Gore, rubando voti a Bradley per poi regalarli, all’ultimo momento, a Gore, suo amico di sempre: un complotto che rispecchia più da vicino la sua mentalità da giocatore. Alla fine dell’intervista il giovane Kennedy gli domanda: “Ai tuoi figli raccomanderesti il cinema o la politica?”.
“Probabilmente il cinema”.
“E perché?”.
“Perché le sceneggiature di Hollywood sono scritte meglio”.
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