Il cuore grande dei bocateros

Di Caterina Giojelli
16 Giugno 2020
Come tre amici si sono infiltrati nei bassifondi di Madrid tra spacciatori, clochard e malavitosi per offrire panini ed è finita con migliaia di famiglie sfamate, accudite, rinate

Articolo tratto dal numero di giugno 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Marciva col cancro ma chi lo guardava non avrebbe immaginato un uomo più felice. Quando approdò alla festa venne sopraffatto dai bocateros, una foresta vivente di braccia tese lo travolse: era giugno, loro sapevano che era stava arrivando al margine della sua storia e lui sapeva di non essere solo. Poco distante, quel figlio appena ritrovato a cui aveva chiesto di accompagnarlo «in un posto», fissava quella tribù con una sola domanda: «Chi è mio padre?». Già, chi era quell’uomo ricolmo di braccia e baci, dov’era finito quell’oscuro padre che aveva conosciuto solo il mese prima e di cui aveva sempre saputo solo fosse un tossico, che disgustava la gente al suo passaggio e che nessuno voleva intorno?

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«Io credo che lo incornicerò, lo stampo e me lo appendo». Un bonifico che pesa quanto un boccadillo, «cinque euro, donazione di un marocchino: eccola, l’oncia di carità. Che manda all’aria ogni ragionamento». Ed ecco Chules, al secolo Jesús de Alba, madrileno classe 1974, marchiato a fuoco da duemila anni di cristianesimo e da un’avventura iniziata 25 anni fa sulle zolle della carità. Quella che tutto crede e tutto spera: per meno della carità cristiana, così incalcolabilmente lontana da tutto ciò che è solo giustizia e assistenzialismo (pur essendone il sangue e avendo di queste cose bisogno per incarnarsi), ora non vedremmo capitani d’industria in ginocchio o a carponi su quelle zolle, chini in giacca cravatta e mascherina a dividere frutta buona e frutta guasta, e universitari spalare colline di patate; non avremmo visto tibie e malleoli a terra, i calli da contadini, non avremmo visto furgoni della posta e camionette militari carichi di cibo attraversare Madrid durante il lockdown. Non avremmo visto pubblico, privato, civili, militari, atei e credenti andare d’improvviso tutti nella stessa direzione, non ci sarebbe stato il bonifico del marocchino e nemmeno quello da ventimila euro di un benedettissimo sconosciuto. Non ci sarebbe un giovane cosciente di essere stato il figlio di un uomo amato e felice. Non ci sarebbe stata Bocatas.

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La storia inizia con un prete. È il 1996, quando don Jorge Dompablo – uno di 14 fratelli, arrivato a Cristo crescendo tra balordi spacciatori e va da sé finito ad occuparsi di accogliere tossici ed emarginati – viene assegnato parroco a San Jorge, quartiere stadio Santiago Bernabéu: «Dove sono i poveri?», aveva chiesto ai ragazzi della parrocchia, «quali poveri, questo è un quartiere ricco». Per tutta risposta don Jorge li aveva portati fuori dall’oratorio, fino al premere di ombre negli angoli dello splendido rione, e poi giù, nel buio dei sotterranei della via Azca. Erano franati così nella culla pisciosa e randagia dei clochard, una bottega di varia umanità che il prete decise di affidare ogni venerdì sera a quattro ventenni di Comunione e liberazione: Jesús de Alba, appunto, con gli amici Ignacio “Nacho” Rodriguez, Ingnacio Barbas e Jorge Catalá. «Ci chiedeva una caritativa, la chiedeva a tutti un giorno a settimana, solo che il nostro gruppo sarebbe rimasto l’unico fedele al gesto ogni venerdì. Chi vuole smettere di vivere pienamente una volta iniziato?».

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Fa freddo la prima sera in cui i ragazzi si calano in quella farragine di derelitti che brucia i fuochi nelle latte e alita alcol. «Volete un boccadillo?» chiedono i tre allungando i panini preparati in parrocchia. La storia dell’amicizia tra ragazzi e barboni, di un’amicizia vorace di pane, vita e libertà che solo i cani sciolti condividono fino all’ultima crosta, inizia così, e nel racconto di Chules ha il viso allegro di Macario, “il chatarrero” che carica carretti di ferraglia raccolta per Madrid e diventa subito la mascotte di quelli che per i diseredati sono già diventati i “Bocatas”: strani ragazzi che non vogliono cambiar loro la vita, solo donare la propria, tutta intera. «Iniziammo a invitarli alle nostre vacanzine, gli alcolisti si ritrovavano fra le lenzuola e sotto la doccia in hotel stellati del Portogallo, a giocare a pallone in spiaggia con le nostre famiglie. Poi li riportavamo sui loro materassi di marciapiede, negli androni delle chiese, e loro ci seguivano coi loro stracci alla via crucis o nei pub a bere cerveza. Non c’erano regole, nessuno voleva sistemare o cambiare la vita all’altro, solo avere la gioia di accompagnarlo. La Chiesa ci aveva insegnato che libertà e amicizia recuperano l’umano e noi un altro metodo di fare la caritativa non lo conoscevamo».

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Finché qualcuno decide di chiudere il sottopasso: è una sera del 2003 quando Jesús vede alla televisione un servizio su Las Barranquillas, la baraccopoli della droga, regno di spettri, bocche sdentate e braccia trafitte dagli aghi. «Era settembre, ed erano brividi di paura quelli che sentivamo mentre attiravamo un crogiulo di disperati con lo sguardo assente al nostro chioschetto. Tutti tranne uno. Ci fissò per un’ora, a debita distanza, in silenzio, finché ho deciso di avvicinarmi». «Che fai qua?» gli chiede Chules. E quello sgrana le pupille: «Ma che fate voi qua?». «Noi offriamo panini». «No, voi siete pazzi», dice quello che diventerà il loro amico “Meji”, il messicano, «siete come Ulisse alle colonne d’Ercole e questo è un posto pericoloso. Ma quello che fate è straordinario». Oggi il Meji fa il custode di una scuola a Barcellona: è intorno alla sua amicizia con Chules, Nachos e gli altri che nasce il primo nocciolo di ex tossici, Magdalena, Julián “el Juli” e Sandokan. Jesús – questo il nome di Sandokan – vive allora in una tenda sprofondata a Las Barranquillas: cannette, Lsd, trip, coca, eroina, inganni; per tutti è un machaca, lavora per le famiglie del narcotraffico, l’hiv l’ha presa quel giorno di cui ricorda solo di aver condiviso una siringa. Poi arrivano questi, i Bocatas, che hanno sempre panini e voglia di parlare e si piazzano in cerchio attorno a un falò a recitare l’Angelus. Lui inizia a guardarli, smette di andare a rubare con i compari dopo avere arraffato i panini, ascolta questi anarchici che credono in Cristo e non nei sussidi, nella persona e non nella burocrazia, che credono anche in lui così com’è: e lui marcio, lordo, malato, si sente abbracciato e finalmente sbendato.

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Sandokan è il primo a seguire i bocateros a Valdemingómez, lungo la Cañada Real, dove nel 2009 viene trasferita la sarabanda infernale di Las Barranquillas, lo sterminato campo edificato dai machaca, nuova roccaforte di zingari, immigrati, mafiosi e trafficanti d’armi, signori della droga. E anche qui i Bocatas tornano, a scaldare pasta e lenticchie su fornelli da campeggio, offrire budini a pregiudicati, straccioni, tossicomani. Tra loro Sebas, l’unico ad avere una carta d’identità il cui indirizzo è “Cañada Real s / n” al soldo di uno dei più importanti clan di zingari che smercia roba, «mi invitò a salutare la mama gitana a capo del traffico per cui lui lavorava. Viveva in una catapecchia con le dosi sparpagliate sul tavolo, fuori i vigilantes armati fino ai denti. Ancora non lo sapevamo ma Sebas, che quando era fatto non riusciva nemmeno ad addentare il panino, aveva un cuore grosso, enorme». È una sera del 31 dicembre quando siede al tavolo di Chules col Meji, Sandokan, c’è anche il prete, c’è la sorella di Chules, giocano a carte, festeggiano san Silvestro. Alle vacanzine estive Sebas si attacca alla carrozzella di Pepe, rimasto teraplegico dopo un incidente in macchina, gli offre le sue gambe traballanti e malconce, si cura che nulla gli manchi. Di lì a pochi mesi il buco di una tracheostomia gli chiude la voce, «il medico gli vietò di tornare nella sua merdosa stanza alla Canada e il parroco di San Jorge decise di ospitarlo. Temporaneamente, diceva. Poi Sebas cucinava troppo bene e la canonica diventò casa sua. Trascorse gli ultimi anni a capo della lavanderia di un’impresa sociale dove lavoravano disabili psichici, sordi, handicappati. Lui con la gola cucita, il volto impenetrabile e quella bomba di cuore in mezzo ai matti. Il cancro se lo portò via in tre, quattro mesi. E lui se ne è andato ringraziando la vita». Era il 16 luglio di due anni fa, festa della Beata Vergine del Carmen.

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Chules è laureato in Giurisprudenza e Gestione delle imprese, fa il commercialista, nessun bocateros lavora per Bocatas ma tutti, di qualunque cosa si occupino, restano bocateros fino al midollo. «Quel che è essenziale al povero è essenziale a te, per meno dell’essenziale chi è così folle da uscire dalla schiavitù dei trafficanti di droga per seguirti fino agli esercizi spirituali ad Avila? Per questo Bocatas è un luogo adatto all’uomo: perché risponde a quello che è l’uomo e non all’immagine che abbiamo del “disadattato sociale”. Noi non abbiamo un “progetto” su un gruppo marginale, sfamiamo famiglie, accompagniamo il reinserimento degli ex tossici, offriamo una compagnia educativa a minori gitani, ma lo facciamo rispondendo a volti ben concreti, con i quali si intraprende un’amicizia, senza la quale tutto ritorna al nulla, torni a rifarti. Senza un volto, il volto di Sebas, del Meji, Sando a che serve chiedere soldi, sussidi? Tutto finirebbe col progetto. Come ha detto il cardinale Roger Etchegaray, “il lebbroso ha diritto a essere curato, ma non ha diritto al bacio di san Francesco; eppure ne ha tanto bisogno. La carità esige la giustizia, ma va oltre: le cure sono la giustizia, ma il bacio è qualcosa di più di cui l’uomo ha bisogno, è la carità”. Non ci tiene insieme un volontarismo ma la carità che è una gratitudine per la vita e un’amicizia che porta con sé una delle sue modalità più potenti in questo dedicarsi agli altri». E l’amicizia – lo abbiamo scritto occupandoci su tempi.it di Bocatas appena Madrid è stata travolta da Covid, e di come abbia gemmato fino a Milano, stazione Garibaldi, binario 10 – è per statuto imprevedibile.

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Fino a marzo, 50 bocateros sfamavano circa 50 famiglie gravitanti intorno a Santo Tomás, la parrocchia dove ora si riuniscono, un mese dopo le famiglie da sfamare sono diventate 1.200, 4 mila le persone che hanno ricevuto oltre 30 mila chili di cibo, 420 i volontari, perché il virus ha trivellato la città e a migliaia vecchi e nuovi poveri si sono rivolti alla Caritas. E la «pasión por el hombre» che ha mosso i Bocatas ha superato in velocità e contagiosità il virus: «Oggi dobbiamo svaligiare il Banco alimentare per stare dietro a tutti. All’inizio ci ha seguito la gente che ci vedeva trafficare intorno alla parrocchia e gli stranieri accolti nel centro parrocchiale, ci hanno indicato loro le “tane”, i garage e i tubi di scolo dove vivevano i loro connazionali. Poi si sono aggregati i militari, le poste per recapitare il cibo, la polizia ci ha permesso di movimentare cibo in tutta Madrid. A quel punto sono arrivate le telecamere e i giornali, una ditta ha donato degli smartphone per il lavoro e la didattica a distanza, ci ha aiutato il patron di Leche Pascual, ci ha chiamato chiunque, dai direttori finanziari alla gente semplice, proponendoci cibo, mascherine, sistemazioni, soldi, tempo: “Cosa possiamo fare?”».

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La carità esplode, travolge i Bocatas. A ogni volontario è affidata la famiglia destinataria del pacco alimentare, c’è chi aiuta a pagare l’affitto, chi regala ricariche telefonice. Chules si è dovuto trasferire in parrochia per stare dietro a magazzini, scorte, furgoni, «non si capisce più chi è il povero e il volontario, abbiamo dovuto dividerci in gruppi per occuparci dei bisogni di chi ha bimbi piccolissimi o di chi ha bisogno di una sistemazione perché vive in condizioni inumane. Un’amica infermiera si è messa a cercare lavoro ai disoccupati, ora l’aiutano in sedici, siamo stati contattati da comune e fondazione. Una squadra di calcio femminile ci ha donato seimila euro solo perché “tra i tanti ci ha colpito la vostra amicizia”». Quando raccontiamo a Chules della “malattia del controllo” che si è diffusa in Italia insieme a Covid-19, dalle app di tracciamento alla resistenza burocratica verso ogni tentativo di ripartenza delle imprese fino alle campagne politiche tese a distruggere tutto ciò che mette in discussione il monopolio statale del “bene comune”, il madrileno sorride: «Scienza e religione degli argomenti: non sono certo questi a mancare, diceva Péguy, nel mondo e nella chiesa del mondo moderno. Manca l’oncia di carità. Noi non siamo vigilantes, ma sentinelle, non crediamo nella Gestapo ma nel cuore grosso. Funziona meglio, è rapido, è una vita in piena, guardate Madrid. L’amore, come diceva Giovanni Paolo II, vince sempre, ma bisogna mettere insieme l’io, l’immenso io di Dio». Come Sebas, quel giorno di luglio, accanto il figlio che aveva cercato e conosciuto appena un mese prima di morire e che tutto quello che ora sa di suo padre è che era un uomo amato e felice.

Foto: Tribu Bocatas

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