Il contrario della libertà non è una cella ma la solitudine

Di Renato Farina
10 Settembre 2012
Nel Centro Stampa Homo Faber della prigione di Como si fa grafica. E si vede, si palpa qualcosa di più di un modo per sfangarla. Una cellula rivoluzionaria risorta da morte

Qui esibisco una perla. Non lasciate che la prendano a martellate, o che la nascondano. Ho un po’ paura, scrivendone, di sciuparla, maneggiandola con le mie mani da pregiudicato e da deputato (l’incrocio peggiore secondo la Bibbia Universale in Voga). Ma guardatela, veneratela, pregate Dio che la moltiplichi, non solo nelle galere ma fuori. Le case circondariali talvolta circondano dei tesori.

Ho resistito per un po’, ma ora – l’avete capito – torno a rompere le scatole al mondo sulle carceri. Non so, forse ci vedo una profezia del mio futuro. Oppure vedo lì, sperimento in quel posto, il triplo concentrato di pomodoro, l’acqua di colonia purissima della nostra vita oggi in Italia. Disperazione e speranza.

Di recente con Boris Godunov (nota per i pm: non si tratta di autocalunnia, egli esiste veramente, ma attraversa le porte come Gesù) sono stato in visita alla prigione di Como. Problemi? Quelli soliti. Celle per due occupate da quattro, palestra che non c’è, mancanza di agenti. Il pane pesante e malcotto, immangiabile, come quello delle carceri russe. Dico al comandante Maria Cristina Cobetto, un commissario competente e sensibile: «Noi ci occupiamo di lavoro in prigione. C’è una mia legge che aspetta invano dal governo l’ok per il finanziamento». Spieghiamo come al solito la rava e la fava, e cioè che conviene a tutti ampliare gli spazi di lavoro vero, perché se uno lavora mentre è detenuto, e poi quello stesso lavoro perdura anche dopo la fine della pena, non si delinque più. Statistiche universali. Così il comandante ci accompagna in una sala piena di computer. Una dozzina di persone sono radunate intorno a un tavolo. Sono quelli del Centro Stampa Homo Faber. Lavorano nel campo della grafica. Si predispongono manifesti pubblicitari o artistici. Roba bella è esposta. Boris è fulminato dalla riflessione di un ragazzo albanese di nome Zef, 580 euro al mese di paga part time: «Non è importante uscire dal carcere o stare dentro». Ehi, la libertà, tu scherzi… «No, non scherzo. Lo so bene cos’è la libertà. Il contrario della libertà non è stare in carcere. Il contrario della libertà è la solitudine disperata, è essere soli. E questa vale dentro e fuori». Me lo confessava anche un vecchio, sdraiato sulla brandina, nel settore “protetti” (quelli che se si mescolano ai detenuti comuni finiscono male: sono sex offender oppure “infami”). «Esco a novembre. Non ho nessuno, non ho un tetto, non ho chi mi vuol bene». La comandante commenta: «Uscire ed essere solo, non avere una casa, è una disperazione tale per molti che compiono poi reati per rientrare».

Nel Centro Stampa Homo Faber vedo, palpo qualcosa di più di un modo per sfangarsela. È il cuore di una vita nuova. Una cellula rivoluzionaria risorta da morte. Non so spiegarmi meglio. Boris dice: «Una fontana nel giardino dello zar». Apprendo che questa esperienza è a rischio. Questioni di ministeri, di regolamenti. Zef: «Ciò che cambia nel profondo è se esci da solo, e sei solo, oppure se sei legato a un’esperienza di verità, amore e lavoro». Gli altri intorno, brianzoli o lecchesi, confermano. Tutto nasce da una maestra d’asilo, fondatrice di scuole, Patrizia Colombo. Io porterei gite scolastiche a incontrare realtà così, speranze di un futuro per tutti. Invece di investire denari solo in carceri nuove, si dia la possibilità ad esperienze educative di crescere. Lo dico qui e ora: guai a chi tocca l’Homo Faber.

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