
Il compito che Enzo Piccinini ha affidato a noi, medici suoi allievi

Articolo tratto dal numero di Tempi di maggio 2019.
Oggi, domenica 26 maggio 2019, cade il ventesimo anniversario della morte improvvisa di Enzo Piccinini, apprezzato chirurgo emiliano e dirigente del movimento di Comunione e Liberazione. Questa sera nel Duomo di Modena sarà celebrata una Messa in sua memoria dall’arcivescovo della città, monsignor Erio Castellucci, dal vescovo di Reggio Emilia (diocesi natale di Piccinini), monsignor Massimo Camisasca, e dal presidente della Fraternità di Cl, don Julián Carrón.
Per l’occasione pubblichiamo di seguito il ricordo dell’amicizia con Enzo scritto per il nostro mensile da Giampaolo Ugolini, suo allievo per 10 anni al policlinico universitario Sant’Orsola di Bologna e oggi primario di chirurgia all’ospedale di Faenza. A Enzo Piccinini è dedicato un ampio servizio a più firme nel numero di Tempi di maggio, compresa la copertina. E di lui parleranno amici e allievi anche al Tempi Day del 14 giugno (qui l’invito aperto a tutti).
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Ricordo ancora bene quel sabato mattina in cui mi trovavo con il dottor Enzo Piccinini a fare colazione al bar del padiglione 5 al policlinico Sant’Orsola di Bologna dopo una delle tante notti passate in piedi a operare. Ero al mio terzo anno di specialità in chirurgia generale e ormai mi ero abbastanza abituato ai duri ritmi di lavoro richiesti per imparare a diventare un chirurgo. Io e gli altri giovani medici dell’équipe legati a Enzo eravamo felici e soddisfatti per il buon lavoro fatto durante le 24 ore precedenti passate in ospedale tra la gestione dei pazienti ricoverati in reparto, le nuove consulenze chirurgiche provenienti dal pronto soccorso e le urgenze da portare in sala operatoria. Ora dopo il duro lavoro ci aspettava una bella colazione e poi il meritato riposo… se non fosse che, come al solito, Piccinini aveva la capacità di sorprenderci e, senza che neanche ce ne fossimo resi conto, durante la colazione aveva già provveduto a organizzare una partita di calcetto a Modena in cui ovviamente tutti noi (distrutti dalla fatica) eravamo nella lista dei convocati!
Lui era così: instancabile, indomabile in ogni aspetto della sua esistenza.
Avevo conosciuto Enzo nel suo ruolo di responsabile degli studenti universitari di Cl di Bologna, ma il mio primo vero incontro con lui è stato all’età di 22 anni mentre frequentavo il quinto anno della facoltà di Medicina all’Università di Bologna. Enzo era stato assente per oltre sei mesi per svolgere un’esperienza formativa negli Stati Uniti, in uno degli ospedali più famosi di Boston, il Massachusetts General Hospital affiliato all’università di Harvard. Pochi giorni dopo il suo ritorno, durante un incontro pubblico con alcuni studenti universitari, lo ascoltai raccontare con un entusiasmo mai visto ciò che aveva osservato e imparato. Il tono e il modo in cui raccontava la sua esperienza negli Stati Uniti facevano intuire che era sicuramente un tipo tosto sul lavoro e che aveva un desiderio enorme di costruire qualcosa di grande anche qua in Italia.
Amavo studiare medicina ma ero rimasto fino ad allora piuttosto deluso dei vari reparti che avevo frequentato e ancora non avevo ben chiaro quale strada scegliere: finalmente quel giorno ho capito che avrei voluto fare il chirurgo e che avrei potuto farlo bene solo seguendo una persona come lui. Da quel giorno è iniziata un’avventura insieme ad Enzo durata 10 anni in cui ci siamo visti o sentiti praticamente tutti i giorni.
Il clima negli ospedali e nell’università di quel tempo era molto resistente a ogni innovazione e molto sospettoso nei confronti di chi osava proporre nuove iniziative. Enzo era un semplice ricercatore in uno dei tanti reparti chirurgici a direzione universitaria con una struttura gerarchica e autorefenziale ben diversa da quella che aveva visto negli Stati Uniti. Era come se sentisse una forte responsabilità per contribuire a ri-costruire qualcosa che si era perduto nel nostro paese e in particolare nell’ambiente universitario. Credeva fermamente che l’ambiente universitario, pur degradato, fosse il luogo giusto da cui ripartire per educare le nuove generazioni di medici. Diceva sempre che un paese senza buone università è perduto, non ha speranza per il futuro. Per questo avevamo anche organizzato un convegno con ospiti internazionali intitolato “Chi insegna che cosa”, per mettere a tema il problema della formazione medica nelle università italiane.
Io e tutti i suoi allievi eravamo sempre stupiti dalla sua capacità di annullare la distanza gerarchica e per la passione all’insegnamento che lo portavano ad essere contemporaneamente amico fraterno e rigoroso maestro. Insegnare significava per lui “educare” attraverso un rapporto nel quale insieme alle conoscenze scientifiche si trasmettesse la passione alla verità profonda di ogni aspetto del reale.
L’attenzione ai pazienti
Alla capacità scientifica si associava nel dottor Piccinini una commossa attenzione alla persona: per questo tanti suoi pazienti trovavano in lui, in un difficile momento della propria vita, non solo un eccellente chirurgo, che spesso aveva il coraggio di dare una speranza anche quando sarebbe stato più semplice arrendersi, ma anche una persona amica e carica di umanità, disposta a condividere ogni aspetto del loro bisogno umano.
Coglieva sempre ogni occasione per andare a visitare i centri di eccellenza per imparare dai migliori chirurghi in tutto il mondo. Ogni volta che tornava, aveva sempre il desiderio di raccontarci nei dettagli ciò che aveva visto d’interessante e insieme si cercava di capire come avremmo potuto introdurre nella nostra realtà qualcosa di nuovo per migliorare le cure ai nostri pazienti. Questo suo atteggiamento era contagioso e molti di noi chiedevano di poter trascorrere dei periodi di formazione all’estero. È sempre stato disponibile a sostenerci trovando borse di studio e mettendo a disposizione di tutti il patrimonio di rapporti professionali che aveva costruito nel tempo.
All’improvviso una mattina, il 26 maggio 1999, mentre mi preparavo per andare al lavoro, ho ricevuto una telefonata e in un attimo mi è caduto il mondo addosso! Enzo era morto in un incidente stradale ritornando da Milano, dove era andato per un incontro con don Giussani e i suoi amici più cari: era partito da Bologna alle 19.30 dopo una lunga giornata passata insieme in sala operatoria.
La prima sensazione è stata quella di una terribile ingiustizia. Enzo aveva appena 48 anni, era nel pieno della carriera e dopo tanti sacrifici stava costruendo, insieme a noi, qualcosa di nuovo in ospedale. Tutto questo per me non aveva un senso. Non potevo neanche concepire il mio lavoro di chirurgo senza di lui.
Un colloquio indimenticabile
Avevo vissuto dieci anni bellissimi seguendo Enzo, crescendo piano piano vicino a lui e ai ragazzi con cui avevamo in comune questo desiderio di fare cose grandi per i nostri pazienti. E ora lui ci lasciava tutti: la sua famiglia, i suoi amici e noi da soli al lavoro in un ambiente difficile, tutti precari, specializzandi o dottorandi (come nel mio caso) senza prospettive, senza un futuro!
Al fondo però avevo una speranza: Enzo non poteva essersene andato così e averci lasciato solo una grande nostalgia di una storia grandiosa, entusiasmante, vissuta insieme a lui.
Pochi istanti dopo la sua morte, io che ero in quel momento il più anziano del gruppo, sono dovuto andare a fare il giro in reparto per comunicare a tutti i suoi pazienti, i “nostri” pazienti (Enzo ci teneva che guardassimo tutti i pazienti come se fossero i nostri pazienti “personali”), quello che era successo (alcuni dovevano ancora essere operati e avevano fatto in alcuni casi centinaia di chilometri per venire da lui!). È stata una cosa terribile, ma lì è accaduto qualcosa che poi non mi sono più dimenticato: lo ricordo come fosse ora.
Una paziente operata da Enzo, vedendoci tutti così provati e sconvolti, ci dice in maniera del tutto inaspettata: «Ragazzi, capisco che siate tristi, ma ora voi avete una grossa responsabilità! Io ho girato tanti ospedali, ho subìto tante operazioni, e al di là dell’esito positivo dell’intervento che mi ha fatto il dottor Piccinini volevo dirvi che non ho mai visto un gruppo di medici e infermieri lavorare insieme in questo modo, con un clima così sereno tra voi e così adeguato per noi pazienti, sia professionalmente che umanamente. Essere curati in un luogo come questo è quello che ogni paziente desidera. Vi chiedo di non smettere di lavorare in questo modo. Sarebbe bello che ognuno di voi potesse andare in un ospedale diverso e iniziare a costruire qualcosa di simile a ciò che ho visto!».
Da allora è come se grazie al colloquio con quella paziente fosse diventato chiaro per ognuno di noi il compito che ci aveva lasciato Enzo. È come se ci fosse stato chiesto di farci avanti e di provare a fare questo mestiere tenendo presente la bellezza, la passione, la dedizione al lavoro che avevamo imparato da Enzo.
Un filo che lega tutto
A volte devono passare tanti anni per riuscire a comprendere meglio il senso delle cose che accadono, per poter cogliere il filo che lega tutte le circostanze che capitano nella nostra vita. Nel tempo gli eventi della vita si sono susseguiti, dalla nascita dei figli alla ricerca di una stabilità lavorativa in ospedale cercando di continuare a migliorare le mie competenze professionali e avendo sempre in mente il desiderio di portare avanti ciò che era iniziato con lui. Ora, a vent’anni dalla sua scomparsa, è evidente che Enzo è sempre stato al mio fianco, nel senso che quel forte desiderio di costruire qualcosa di grande non mi ha mai abbandonato. Pian piano è diventato sempre più chiaro che il modo migliore per mantenere viva quella tensione ideale era prendere sul serio le circostanze e i fatti che mi capitavano, sostenuto da una incredibile rete di amicizie in Italia e nel mondo che Enzo mi aveva lasciato.
Da settembre 2016 ho preso servizio come primario di chirurgia all’ospedale di Faenza, dove si sono realizzate le condizioni per lavorare insieme a un gruppo di medici che hanno a cuore la passione per la cura ai pazienti, e per la ricerca clinica. Abbiamo ancora tanta strada da fare, ma non avrei potuto minimamente immaginare la bellezza e la grazia di ciò che sta capitando ora. Capisco che si sta compiendo un po’ di quello che ci aveva chiesto quella paziente. Quel desiderio iniziale non è stato tradito: è come se ci fosse sempre stato un filo invisibile che legava tutto.
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