
IL CASO DELL’ERMAFRODITO CHIMERICO
«E le stelle assenti, e non un Dio nella sera». Scozia, Edimburgo, la città è avvolta nel freddo di gennaio e la televisione nazionale passa distrattamente le notizie della giornata mentre al National Theatre vanno in scena I Canti Orfici di Dino Campana. La voce dello speaker delle news è monotona, la solita litania. Ma la notizia, stavolta, è sconvolgente. Il mezzobusto la scandisce, mentre alle sue spalle scorrono immagini colorate di fecondazioni assistite: «Parliamo ora dei rischi della provetta. Per un errore nelle tecniche di fertilizzazione un bambino è nato con gli organi sessuali maschili e femminili. Il nome del neonato è stato tenuto segreto, si sa solo che ha circa due anni e che è venuto al mondo con un testicolo e con un’ovaia da una madre fertilizzata attraverso una banca dello sperma». Il padre naturale, donatore del seme, non conoscerà mai la sorte maledetta toccato a suo figlio che gli resterà ignoto per la vita mentre la tv continua a vomitare la cronaca di una disattenzione umana: «Le sue caratteristiche anatomiche – secondo quanto rivelato dai test genetici condotti circa 15 mesi dopo la nascita – sono state attribuite dagli scienziati all’involontaria fusione di un embrione maschile e di uno femminile nell’utero materno». Per la scienza, quel piccolo di due anni, mezzo uomo e mezzo donna è un “ermafrodita chimerico”.
NON è MITOLOGIA
Era il 15 gennaio del 1998 quando l’eugenetica venne presa in contropiede dalla nascita di un bambino-bambina. Le pubblicazioni piovvero a fiotti mentre la famiglia, il padre 41enne e la moglie di dieci anni più giovane, giravano disperati i centri specialistici di mezzo mondo per cercare una spiegazione che non fosse “mitologia”.
Lisa Strain e David Bonthron, genetisti dell’università di Edimburgo, furono i più attenti e solerti nello studiare il caso. Sul New England Journal of Medicine cercarono di capire cosa fosse accaduto in quella provetta disgraziata e, soprattutto, con una sofferta tensione etica, di evitare che casi analoghi potessero ripetersi in futuro, con altre famiglie, con altri bambini. Recuperando dal mito greco la figura omerica di una chimera, testa di capra, corpo di capra e coda di dragone, cercarono di razionalizzare “l’accidente scozzese”. Spiega la Strain a Tempi, ricostruendo quei giorni mai dimenticati: «Una chimera come avevamo messo in evidenza insieme al mio collega Bonthron sul New England all’epoca del caso, è il risultato della fusione non intenzionale di due embrioni che si sarebbero dovuti sviluppare in neonati diversi e distinti. Nel bambino ermafrodita scozzese, purtroppo, questa separazione non è avvenuta e i due embrioni che si sono fusi appartenevano a sessi diversi. Per questa ragione il piccolo è nato con un testicolo ed un’ovaia».
PARACELSO DELLA CONTEMPORANEITà
Fin qui la storia: un bimbo, nato da madre fertilizzata con lo sperma di un anonimo donatore, nasce con caratteristiche anatomiche ermafrodite – evidenziate da test genetici dopo il riscontro da parte dei medici di alcune anomalie – che fondono insieme, nella stessa persona, («involontariamente», sottolineano i sostenitori della fecondazione assistita, e ci mancherebbe pure che l’avessero progettato, aggiungiamo noi), tratti di uomo e tratti di donna perché un embrione maschile ed uno femminile si sono fusi insieme nell’utero della madre. Ma non basta. Come spiegano gli stessi scienziati Strain e Bonthron, il dramma di questa vicenda non può passare in cavalleria come un incidente di percorso ma deve servire da monito per «parlare in pubblico, senza infingimenti, delle controindicazioni e dei pericoli legati alle tecniche di riproduzione in vitro».
«Il caso scozzese – argomentano a Tempi – è uno dei rischi ma non il solo. Un problema da prendere molto sul serio visto che l’aumento di circa il 33 per cento dei parti gemellari in seguito alla fertilizzazione in provetta implica un rischio parimenti elevato di rare anomalie collegate come il chimerismo». Date le possibilità limitate di successo in questo tipo di fecondazione, infatti, la prassi medica prevede l’impianto di parecchi embrioni nell’utero per consentire alla donna una maggiore probabilità di diventare madre. Questa pratica ha portato con sé una crescita esponenziale dei parti plurigemellari. Oltre a questo, secondo la Strain, «il rischio forte è che il chimerismo diventi un’anomalia da studiare, seriamente e senza banalizzazioni, nei casi di fecondazione in provetta». Come nelle botteghe di un Paracelso della contemporaneità, il pericolo incombente è quello di far saltare in aria l’umanità, nel senso di scardinarne le regole millenarie che la mandano avanti dai tempi remoti di Adamo ed Eva.
Leggendo l’attento studio pubblicato sempre sul New England Journal of Medicine, dalla Strain e da Bonthron, si scopre, particolare dopo particolare, come i due genetisti riuscirono a dimostrare “l’ermafroditismo chimerico” del bambino. «Per prima cosa – scrivevano – l’esame parte dai markers cromosomici, XX ed YY». Sì, X ed Y, i segni naturali, a seconda della combinazione che viene in essere, della nascita di un uomo e di una donna. Ebbene, con la fecondazione in vitro accidentata anche quei cromosomi sembrano essere saltati via, persi in un mondo faustiano fatto di volontà umana e di creazionismo scientifico.
IL COMMENTO DI REPUBBLICA
Oggi, in tempi italiani di referendum radicali sulla legge 40 e sulla voglia di libertà assolute in tema di riproduzione assistita, il caso dell’ermafrodita chimerico torna di attualità (se si vuol dare spazio ad una riflessione etica argomentata e non soltanto partigiana e priva di dubbi) assieme alle parole, misurate, dei due scienziati scozzesi ed ai moniti lanciati all’epoca del fatto anche dalla stampa laica. Scriveva, commentando la vicenda, Stefano Rodotà sulla Repubblica del 17 gennaio 1998, un paio di giorni dopo la scoperta del chimerismo (“La provetta impazzita. Il caso del bambino – recitava il titolo – ermafrodita: bisogna ridurre a due o a tre gli embrioni da impiantare”. Nda: all’epoca nel Parlamento italiano, Ulivo al governo, si discuteva e si dibatteva proprio in merito alla fecondazione assistita per arrivare ad una legge). A metà del pezzo Rodotà scrive: «Il caso scozzese, se mai, può essere utilizzato per prevedere più precise cautele (relative, ad esempio, al numero di embrioni da impiantare), invece di insistere sugli aspetti più propriamente ideologici. (.) Per ridurre questa eventualità, già diverse legislazioni e protocolli medici vietano l’impianto di un numero di embrioni superiore a due o a tre. Il divieto può ora trovare un’ulteriore giustificazione nella finalità di ridurre il rischio della nascita di ermafroditi».
Che strano: proprio la legge 40 sulla fecondazione assistita, bollata dal fronte radicale come anti-moderna, prevede tre come il numero massimo di embrioni da impiantare. Quello che era laicamente auspicabile pochi anni fa diventa oggi, agli occhi dei non cattolici, profondamente oscurantista, senza che nessuno spieghi il significato di un tale cambiamento copernicano. Niente. Si continua soltanto a dibattere, criticando la possibilità di astenersi ai referendum segnalata come opzione libera e legittima dal presidente della Cei, il cardinale Camillo Ruini. Mentre fuori, come nel freddo gennaio di Edimburgo, sembra risuonare ancora il verso “orfico” e disperante di Dino Campana: «E le stelle assenti, e non un Dio nella sera».
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