
Il “buono” fa scuola
Ricordate la battuta estemporanea ed elegante di Luigi Berlinguer sul buono scuola a uno dei millanta convegni cui è solito partecipare? “Quando parlo del buono scuola, mi viene una tale profonda indignazione dentro che mi metto a strillare”, aveva dichiarato quasi echeggiando la sentenza di Goebbels che diceva di togliere la sicura alla sua pistola ogni volta che sentiva parlare di cultura. Ma se d’incanto il ministro della Pubblica Istruzione venisse trasportato in volo dalle fate a Milwaukee nel Wisconsin, stato americano settentrionale affacciato sul lago Michigan, probabilmente il grido gli si spegnerebbe nella strozza. Perché Milwaukee, città industriale di 600 mila abitanti con una lunga tradizione di sinistra, l’unica negli Usa che può vantare una successione di sindaci “socialisti”, già culla del movimento politico progressista, e oggi afflitta dai tipici problemi americani di dissesto del sistema educativo pubblico, è il teatro di un esperimento di buono scuola che da due anni a questa parte si è conquistato il consenso quasi unanime della classe politica dei due schieramenti (democratici e repubblicani) e delle “minoranze svantaggiate”: 74 per cento degli afroamericani e 77 per cento degli ispanici stando ai sondaggi.
Silenzio, entra la Corte suprema A Milwaukee l’esperimento del buono scuola è cominciato, sotto il nome di “choice program”, cioè programma per la libera scelta, dieci anni fa in sordina: era riservato a studenti estremamente poveri cui veniva offerta la possibilità di utilizzare lo stanziamento annuo pro capite statale per l’educazione in una scuola privata, purché non fosse religiosa. Con queste limitazioni, a poter spendere denaro pubblico (per un ammontare che attualmente è pari a 5.100 dollari pro capite, poco più di 10 milioni di lire) in scuole private fino a due anni fa era solo l’1 per cento degli studenti cittadini, cioè poco più di 1.000 famiglie. Poi, nel ’98, la svolta: sentenziando su di un ricorso la Corte suprema del Wisconsin ha stabilito che anche le scuole “settarie” (un modo poco elegante per indicare le scuole religiose) devono essere ammesse nel sistema dei buoni scuola, purché concedano l’esenzione dalle attività esplicitamente religiose agli studenti che ne facessero eventualmente richiesta. Detto, fatto: nel giro di due anni gli studenti che si valgono del buono scuola sono passati prima a 6.000 (anno scolastico ’98-99) e poi a 8.000 (anno scolastico 1999-2000), mentre grazie al sistema dei buoni sono nate anche 12 scuole pilota non confessionali.
Insomma, quello di Milwaukee non è il sistema del buono scuola universale, come quello che il governatore della Florida Jeff Bush avrebbe voluto introdurre, ma che si è scontrato con una sentenza sfavorevole della Corte suprema di quello stato; tuttavia è pur sempre un’iniziativa coraggiosa che infrange un tabù: quello della separazione fra Chiesa e Stato negli Usa, che sino a ieri era stata fatta valere anche per negare finanziamenti pubblici alle scuole religiose. E soprattutto che introduce due princìpi dalle conseguenze incalcolabili a lunga scadenza, che potrebbero mettere sotto sopra i conti di centinaia di pubbliche amministrazioni in giro per gli Stati Uniti: il principio del diritto alla libera scelta dell’educazione dei figli da parte dei genitori e il principio della liceità dei finanziamenti pubblici a istituti privati. Negli Usa coi diritti (come coi doveri) non si scherza: una volta che sono riconosciuti da una sentenza, chi ne chiede l’applicazione deve essere esaudito, costi quel che costi. Forse è per questo che la Corte suprema degli USA ha rifiutato di esprimersi a sua volta sulla sentenza del Wisconsin.
Scegli la scuola, e salvi la città
Eppure il consenso attorno a quella che i media definiscono una “riforma conservatrice” è vastissimo. “Qui a Milwaukee nessuna carica elettiva si è dichiarata contraria al sistema dei buoni scuola – dichiara Jeff Fleming, portavoce del sindaco (democratico) John Norquist. “Tutti gli eletti di Milwaukee all’assemblea legislativa dello stato sostengono questa politica, e lo stesso dicasi dei due candidati sindaci che fra qualche settimana gareggeranno alle elezioni”. A costoro si aggiungano le associazioni di genitori come la Pave (Parental Advanced Value Education), la locale Camera di Commercio, l’intera comunità afroamericana e la Chiesa cattolica, governata da uno dei vescovi notoriamente più liberal degli Usa, mons. Rembert Weakland. Tutti costoro hanno le loro buone ragioni per sostenere il buono scuola a favore delle famiglie più povere. Il sindaco uscente e il suo aspirante successore si trovano di fronte al classico problema delle medie città americane: il centro storico si riempie di residenti appartenenti a gruppi marginali, la classe media emigra nei sobborghi, la qualità della vita e il valore immobiliare dei quartieri del centro precipitano. Il modo migliore di fermare l’emorragia, secondo Norquist, è promuovere scuole di qualità in centro città, che rispondano alle esigenze della classe media e offrano una reale formazione ai giovani a rischio: ma le poche che soddisfano questi criteri sono quelle private, in gran parte religiose. Di qui la necessità di sostenerle, sia a livello di iscrizioni che di risorse, attraverso lo strumento dei buoni.
Molto simile è il ragionamento dei gruppi svantaggiati, compresi esponenti di rango della comunità afroamericana come il deputato Annette Polly Williams e come l’ex sovrintendente delle scuole pubbliche (!) di Milwaukee Howard Fuller: il sistema della scuola pubblica fa acqua da tutte le parti, il tasso di abbandono fra gli studenti ispanici e afroamericani è altissimo, il loro rendimento scolastico è più basso di quello dei loro coetanei bianchi. L’unico provvedimento ufficiale preso nei loro riguardi prima della politica del buono è risultato in realtà in un aggravio: per permettere alle scuole pubbliche dei quartieri “più bianchi” di rispettare gli obiettivi di integrazione razziale fissati da sentenze di tribunale, i ragazzi neri si sono dovuti trasformare in pendolari, sballottatti avanti e indietro dagli autobus scolastici ogni mattina. Per tutti loro il buono scuola è un’àncora di salvezza: permette ad essi di frequentare a costi contenutissimi scuole di ottimo livello (private, ovviamente) nel loro quartiere di residenza.
Scuole cattoliche in prima fila Un ruolo speciale nell’esperimento del buono scuola ce l’hanno gli istituti cattolici di Milwaukee: da soli rappresentano il 60 per cento di tutte le scuole private che quest’anno hanno accolto “choice students”. Nelle sole scuole elementari cattoliche la percentuale degli “choice students” è già del 38 per cento, pari a 2.757 unità. E poichè la maggior parte delle scuole cattoliche ha accettato anche la “clause option”, cioè la possibilità per gli studenti di non partecipare alle attività religiose, anche il numero degli studenti non cattolici è improvvisamente aumentato: nelle elementari è passato dall’1,3 per cento al 6,6, nelle superiori dal 10,6 per cento al 13,6. “La Chiesa sostiene il buono scuola perché vuole che i bambini poveri abbiano le stesse opportunità educative di quelli che possono permettersi di pagare le rette delle scuole cattoliche”, spiega Maureen Gallagher, direttrice delle scuole cattoliche dell’arcidiocesi. Che snocciola con freddo rigore elencativo i difetti del sistema pubblico: “Il tasso di abbandono è molto alto, il tasso di riuscita all’esame di diploma; in molte sono tollerate le assenze ingiustificate e il rendimento scolastico è generalmente basso”. Alla radice del problema, però, starebbero soprattutto problemi familiari, ed è proprio per i suoi risvolti in materia di coinvolgimento della famiglia che la Chiesa sostiene il “choice program”: “Molti residenti fanno parte di famiglie povere e non possono offrire ai loro figli un ambiente favorevole all’apprendimento che permetta di completare studi di alto livello. In molti casi i genitori sono giovanissimi, spesso si tratta di ragazze madri. In queste famiglie monoparentali che lottano per la semplice sopravvivenza l’educazione non è percepita come un valore. Il vantaggio delle scuole cattoliche è che sono scuole di quartiere, che puntano sul coinvolgimento dei genitori nelle attività scolastiche”.
Il consenso dunque è grande, ma gli oppositori non mancano, soprattutto fra gli insegnanti della scuola pubblica e i loro sindacati. Dopo lo smacco della sentenza della Corte suprema nel ’98 e la larghissima vittoria dei fautori del buono alle elezioni scolastiche del ’99, i nemici del “choice program” hanno scelto una nuova strategia: quella di esigere dalle scuole convenzionate standard identici a quelli delle scuole pubbliche e di denunciare una loro presunta mancanza di trasparenza. Esigono cioè che in esse le quote razziali nelle classi siano le stesse delle scuole pubbliche, che i parametri di efficienza, gli stipendi, i regolamenti, ecc. coincidano con quelli statali. L’obiettivo è di mettere in difficoltà le scuole che hanno aderito al sistema dei buoni e costringerle a ritirarsi per non avere beghe amministrative. Risponde Howard Fuller: “Le scuole del “choice program” devono adempiere ad una serie di obblighi relativi ai programmi, ai bilanci certificati e al tasso minimo del 70 per cento di studenti che frequentano con profitto. Queste regole, più la nozione di fondo che spetta ai genitori scegliere la scuola per i figli, incarnano la responsabilità pubblica delle scuole”. Non è nemmeno vero che il sistema dei buoni sta togliendo risorse al sistema pubblico: fra il ’98 e il ’99 i fondi per la scuola pubblica sono passati da 861 a 912 milioni di dollari. Il buono scuola non ha impoverito la scuola pubblica, ma, come ha scritto The Economist: “ha trasformato tutte le scuole in scuole pubbliche per i poveri di Milwaukee”.
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