
Il brutto, il bello e il cattivo
D’accordo, l’abito non fa il monaco, però il purissimo Michael Moore, fustigatore dei mali e incoerenze altrui, chissà, magari potrebbe illustrarcela in un documentario la verità di questo antico adagio. Chissà, magari cominciando utilmente col portarsi la cinepresa alla tempia e a spararsi un bell’outing, tipo:
A. Mi vesto come un ragazzino no-global e mi vanto di essere cresciuto in una città operaia a maggioranza afro-americana. In realtà sono figlio di buona famiglia borghese e ho trascorso tutta la giovinezza in una ricca cittadina wasp.
B. Denuncio i mali del capitalismo, ma possiedo case miliardarie (una a Manhattan) e mi piace viaggiare su jet privati.
C. Mi proclamo sostenitore della scuola pubblica, ma mando mia figlia in una costosissima scuola privata.
D. Mi hanno licenziato da tre posti di lavoro, e in nessuno ho lasciato buoni ricordi fra i colleghi, dato che tutti mi detestano per la mia arroganza e i modi da despota che ho con i miei sottoposti.
E. Ho accusato i deputati di mandare a morire in Irak i figli degli altri anziché i loro, ma siccome là tagliano le teste anche ai pacifisti ho mandato una troupe in Irak a fare riprese fra i soldati e io me ne sono rimasto a casa.
F. Nei miei film-documentario monto insieme mozziconi di frasi prese da contesti diversi per far dire ai personaggi quel che fa comodo a me; inverto successioni cronologiche di avvenimenti; asserisco come veri fatti che esistono soltanto nella mia mente; esibisco statistiche false o sbagliate o di cui non afferro il significato. E infine sfrutto cinicamente le sofferenze umane che rappresento per travolgere emotivamente lo spettatore e annientare il suo senso critico. “Fahrenheit 9/11”, il mio ultimo lavoro, è costruito esattamente in questa maniera.
Bene, se il purissimo Michael avesse il coraggio di confessare queste cose, beh, non sarebbe un tipo che meriterebbe solo calci nel culo. E allora, come si spiega lo stuolo di ammiratori ai quattro angoli del mondo che comprano i suoi libri e affollano le sale dove sono proiettati i suoi “documentari”? Beh, dopotutto i suoi film sono “de sinistra”, aggrediscono l’America capitalista e, soprattutto, fanno bene alla campagna elettorale contro il presidente Bush. Un momento, però. Di quale sinistra stiamo parlando se gran parte di quella americana non lo apprezza e, anzi, lo ritiene un prodotto consumistico di bassa lega? Il durissimo scazzo con Paul Berman, l’autore di Terrore e liberalismo, ai tempi di Mother Jones che si concluse col licenziamento di Michael Moore dal settimanale (cfr. Tempi n. 36, p. 26) non è affatto un caso isolato. I giudizi più sferzanti su Moore e sul suo “Fahrenheit 9/11” arrivano da liberal che alle prossime elezioni voteranno Kerry piuttosto che Bush, ma che non tollerano di essere rappresentati da un demagogo ipocrita e manipolatore. Ha scritto Richard Just su The New Republic: «Il sentimento crescente fra i liberal sembra essere che Moore è un cattivo elemento ma, dannazione, è il nostro cattivo elemento. Non sono d’accordo. La disonestà intellettuale di un liberal rende un cattivo servizio alla nostra causa allo stesso modo della disonestà intellettuale dei conservatori». «Descrivere questo film come disonesto e demagogico – ha scritto Christopher Hitchens, columnist di Vanity Fair – sarebbe quasi promuovere ad un livello di rispettabilità queste parole. Definirlo una cagata farebbe correre il rischio di non poter mai più sollevare il discorso al di sopra del livello escrementizio. Descriverlo come un facile esercizio per compiacere il pubblico sarebbe troppo ovvio. “Fahrenheit 9/11” è un sinistro esercizio di frivolezza morale, crudelmente mascherata come un esercizio di serietà. È anche uno spettacolo di abietta codardia politica mascherata da dimostrazione di coraggioso dissenso». David Kopel, un democratico che nel 2000 ha votato per Ralph Nader, è autore di uno studio intitolato Cinquantanove inganni in “Fahrenheit 9/11”. «Se tutto quello che sapete è ciò che vi dicono i media principali – scrive nell’introduzione – allora state vivendo in un mondo di illusioni. Ma non potete liberare la vostra mente semplicemente sostituendo un sistema di illusioni manipolatorie con un altro sistema di illusioni manipolatorie. “Fahrenheit 9/11” è una fantasia perversa, disonesta, paranoica e odiosa».
Mentre in Europa Moore continua ad essere venerato come un dio, negli Usa siamo già in pieno backlash. I siti Internet che fanno a pezzi la vita, i libri, le dichiarazioni e i film di Moore sono una miriade, equamente ripartiti fra destra e sinistra dello spettro politico americano. Per individuare i più utili è sufficiente andare sul sito di David Kopel (www.davekopel.com) ed entrare nella pagina di Fifty-nine Deceits in Fahrenheit 911, lo studio che individua e analizza 59 menzogne nel film in questione. I falsi più clamorosi di “Fahrenheit 9/11” riguardano il progettato oleodotto della Unocal in Afghanistan, presentato come un obiettivo di G.W. Bush mentre si tratta di un progetto dei tempi della presidenza Clinton che il governo Karzai non ha poi approvato; la presenza di Bush in un consiglio di amministrazione del gruppo Carlyle come prova della connection fra il presidente e i più torbidi interessi sauditi, mentre in realtà tutte le grosse transazioni della Carlyle coi sauditi hanno avuto luogo prima dell’ingresso di Bush, che poi da presidente ha penalizzato la Carlyle anziché favorirla (cancellazione di ordinativi militari); la denuncia dei “voli Bin Laden” fuori dagli Usa all’indomani dell’11 settembre come altra prova della volontà di Bush di proteggere i sauditi, mentre in realtà i voli erano stati approvati dal capo dell’antiterrorismo Richard Clarke, presentato come un eroe nel resto del film perché poi si è dimesso dal suo incarico e ha scritto un libro contro l’amministrazione Bush dal titolo Contro tutti i nemici. Chi ha capito veramente il film è il gruppo terrorista sciita Hezbollah, che in Libano gli fa pubblicità gratuitamente e ne mostra spezzoni sulla sua tivù: dimmi chi ti applaude e ti dirò chi sei.
PEDRO ALMODOVAR
«Voglio essere io ad avere l’ultima parola su quello che scrivo e dirigo, a costo di realizzare piccoli film per il resto della mia vita». Così, nel marzo del 2002, due giorni prima dell’uscita in Italia di “Parla con lei”, il regista spagnolo Pedro Almodóvar dichiarava la sua indipendenza dai diabolici meccanismi dell’industria del cinema di Hollywood. E, davvero, non gli si può appuntare nulla in proposito. Almodóvar, infatti, quei diabolici meccanismi ha dimostrato di saperli addomesticare senza mai scendere a compromessi con la politically correctness dei cineasti alla moda, anzi, spesso anche osando sfidare da pioniere i grandi tabù del nostro tempo. I suoi film parlavano di omosessualità già molto prima che “Philadelphia” (1993) inaugurasse il suo genere, descrivevano la crisi del matrimonio e della famiglia in Spagna ben prima che il cinema iberico se ne avvedesse, traboccavano di travestiti e relazioni incestuose quando ancora Hollywood considerava “Nove settimane e mezzo” un film osé, mostravano morti trucide molto prima che il gore e il pulp venissero sdoganati… Non ha mai avuto paura di arrivare a toccare il fondo, Almodóvar, e nemmeno ha mai finto di sapere come risalire. Ecco perché è universalmente ritenuto un grande, perché è perfetto – è innegabile – nel suo crudo descrivere la società postmoderna e postcristiana come una società senza più legami con la tradizione, priva di ogni senso del bello e nemmeno tanto preoccupata della propria evidente mancanza di ideali. Non c’è analisi né tesi in Almodóvar, solo istinto, pulsioni e confusione. E nessun (pre)giudizio.
Per questo è impossibile credere ai maliziosi che sostengono che con “La mala educación” (in uscita l’8 ottobre in Italia) Almodóvar, in un attacco di faciloneria opportunista, abbia voluto abbandonare la sua mitica spregiudicatezza per approfittare un po’ anche lui dell’ondata di anticlericalismo ruspante ringalluzzita da operazioni cinematografiche alla “Magdalene”.
“La mala educación” è un film dal titolo eloquente che parla di un prete pedofilo che “si dà da fare” con due alunni del suo collegio. Perciò, nonostante il regista abbia in più occasioni sottolineato di non voler giudicare nessuno, non c’è stato niente da fare. S’è ormai diffuso il sospetto che questa volta sotto sotto una qualche tesi ci sia.
Ed eccoli, tutti subito a ricordare che l’Almodóvar bambino è stato a scuola dai preti, e che cantava nel coro, e che si trovava male… Come a dire: non è che per caso con questo film vuol ringraziare delle particolari attenzioni ricevute da bambino? Ma va’, si difende lui, «“La mala educacion” è un film molto intimo», ma «non esattamente autobiografico». E anche se, viste le analogie tra le vite di alcuni personaggi e quella del regista, «la mia memoria s’è caricata di un pesante fardello nella stesura della storia», il film «non è un regolamento di conti con i preti che mi hanno “diseducato”, né contro il clero in generale. Se avessi avuto bisogno di vendicarmi non avrei aspettato 40 anni. La Chiesa non mi interessa, neppure come avversaria». Eppoi «il peggior nemico della Chiesa, in Spagna, è la Chiesa stessa». Quindi non c’è bisogno di denunciare: basta raccontare. “La mala educación” in realtà «è un film sull’amore»: «Dovevo assolutamente farlo. Dovevo sbarazzarmene prima che si trasformasse in una ossessione. La storia è rimasta fra le mie mani per oltre 10 anni, e so che avrei potuto attenderne altrettanti». E ancora: «“La mala educación” è l’educazione che ho ricevuto, basata sul castigo, sul farti sentire colpevole. Dunque è un miracolo che io sia un uomo normale e faccia il regista». Ma – e qui va sottolineato altrimenti si rischia di fraintendere –, nessun rancore, Almodóvar non ce l’ha col clero.
Fa niente se poi in un’intervista a Télérama gli scappa detto che «ancora oggi la Chiesa continua ad avere molto potere in Spagna. È stato rafforzato dallo stesso Giovanni Paolo II, che ha canonizzato Escrivá, il fondatore dell’Opus Dei, uno dei peggiori fantasmi che infestano la nostra storia, una setta conosciuta ma che esercita un potere sotterraneo. È veramente il cancro della società spagnola». Eh no, mica ci crede lui, ai pregiudizi e alle dicerie. Infatti, a chi gli chiede se insomma ’sto don Manolo esista o no, lui risponde, sincero, che «no, è inventato, anche se l’ispirazione per alcune sequenze l’ho presa dai preti della mia scuola». E a chi s’ostinasse allora a sostenere che, dunque, alcuni episodi del film sono fatti veri, lui, naif, risponderebbe che «me li hanno raccontati due miei compagni». E che ti credevi? È anticonformista, lui, mica ci va dietro alle voci.
Epperò, magari, se una voce circola, ci sarà un motivo. E così, riflette Almodóvar a proposito delle politiche spagnole del 14 marzo scorso, forse quell’e-mail anonima di lunedì 15 marzo, «che arrivava con insistenza al mio ufficio, dove si affermava che il Partito Popolare, sabato notte, aveva tentato infruttuosamente di spostare le elezioni», conteneva del vero. Forse, denuncia Almodóvar durante la presentazione del suo ultimo capolavoro a Madrid, forse davvero sotto le elezioni il Pp «è stato sul punto di tramare un colpo di Stato… Anche delle semplici voci, comunque più che insistenti e di questa natura, devono farci riflettere».
Mica ce l’ha con nessuno, Almodóvar. Lui fa il regista. Lui rappresenta, mica sta lì a giudicare. Ecco perché può dire liberamente che «domenica (14 marzo, ndr) siamo tornati alla democrazia. Il sequestro e la manipolazione dell’informazione cui ci avevano abituati in questi ultimi otto anni non è stata democrazia». Mica sta a dar retta a pregiudizi e dicerie, Almodóvar, quando al prete seviziatore e pedofilo fa dire, rivolto all’omicida di un alunno: «Per fortuna non ci sono testimoni tranne Dio, ma quello è dalla nostra parte». E non è che può star lì come un Nanni Moretti qualsiasi a strillare slogan sinistrorsi e un po’ conformisti. Lui, Almodóvar, mica giudica, perché per lui siamo tutti uguali: «Il male è dentro il cuore dei personaggi e il peggio delle persone mi attrae moltissimo», dichiara a Cannes durante la proiezione riservata alla stampa de “La mala educación”. «Per questo – gli chiede un giornalista cileno – avrebbe voluto l’ex premier Aznar nella parte del prete pedofilo?». Almodóvar accenna di sì, poi s’affretta a specificare che si tratta di una provocazione paradossale.
Comunque siamo tutti d’accordo: la cattiva educazione esiste per davvero. Non è una diceria o un pregiudizio. Perciò occhio ai cattivi maestri.
SPIKE LEE
Che Spike Lee sia un fenomeno non lo dice la critica, ma i fatti. Anzi, le dichiarazioni nei suoi confronti. Non è da tutti, infatti, pavoneggiarsi a cantore dell’orgoglio afro-americano e riuscire a ottenere un giudizio di questo tenore da parte di Leroy Jones, oggi scrittore ma negli anni Sessanta rappresentante dall’ala più estrema delle Black Panthers di Malcolm X: «Lee rappresenta sullo schermo l’esatto stereotipo dell’uomo di colore che piace al razzista bianco». Non male, ma a questo vanno unite anche le decine di denunce mosse contro i film del cineasta newyorkese dalla Naacp, la più importante associazione statunitense per il progresso della gente di colore. Un capolavoro, non c’è che dire, cui manca soltanto la proverbiale ciliegina sulla torta: et voilà, ecco il diffuso e da più parti condannato antisemitismo di cui traboccano i film del radical-leftist Spike Lee. Uno che si accompagna volentieri al pensiero di personaggi come Farrakhan, Carlson e Shapton, i nuovi leader dei musulmani neri arrivati a sostenere che l’Olocausto è stato un’invenzione della stampa sionista e che, sono parole dello stesso Farrakhan durante un comizio, «Hitler, tutto sommato, non era niente male». Apogeo assoluto dell’iconografia anti-ebraica è il misconosciuto “Get on the bus”, film minore in cui il regista raccontava la storia di un gruppo di neri di Los Angeles che viaggia in autobus verso Washington D.C., per partecipare alla “marcia di un milione di uomini”, la nazione nera, del 1995. Bene, “Get on the bus” non è un film scomodo o provocatorio: è un film razzista. Sì, perché come sempre più spesso accade tra i cantori dei diritti, anche Spike Lee si dev’essere dimenticato che anche l’esponente di una minoranza può essere razzista, magari al contrario, magari con una logica sliding doors, ma sempre razzista. Soprattutto quando si pensa, come fa Mr. Lee, che tutti gli esponenti di una maggioranza, per il semplice fatto di essere tali, siano razzisti a prescindere. Nel film c’è una scena in cui l’autista del bus, guarda caso un ebreo bianco (Richard Belzer), viene attaccato verbalmente da uno dei passeggeri, un omosessuale nero (notare come le caratterizzazioni in Lee siano sempre spinte all’estremo, paradigmatiche quando non apertamente paradossali e provocatorie: in questo caso mancava soltanto che il soggetto fosse anche trotzkista e malato di Aids), con la seguente motivazione: tu – inteso come ebreo e non come autista – non hai fatto niente per il popolo di colore. All’autista, che stava semplicemente facendo il suo lavoro, vengono quindi rinfacciati crimini commessi secoli prima da gente con la quale lui, proprio perché ebreo, non può nemmeno essere equiparato o collegato alla lontana: è la logica stalinista del calunniare sistematicamente per criminalizzare, il traspondere fatti e realtà oggettive a situazioni completamente decontestualizzate per garantirsi basi di consenso prêt-à-porter (l’iconografia no-global di Ariel Sharon dipinto come fascista e nazista è figlia legittima di questa scuola). In un’altra scena, poi, il bus viene fermato nel mezzo della notte dalla polizia del Tennessee per un controllo antidroga. Il poliziotto, ovviamente un bianco (Randy Quaid), non ha la minima intenzione di incastrare il gruppo perché formato da gente di colore, ma la sensazione che Lee lascia trasparire e scivolare sottopelle è che sia comunque uno che, se il pullman fosse stato pieno di wasp, non avrebbe certo fatto segno di accostare. E che dire della scena in cui lo studente di cinema chiede a Smooth se lui ruba alla gente di colore? Oppure quella in cui un ex membro di una gang di South Central, il quartiere di Los Angeles teatro della grande rivolta nera in reazione al pestaggio di Rodney King, chiede a un poliziotto che fa parte del gruppo se lui picchia i “fratelli”. Come dire: «Chissenefrega se ammazzi di botte un bianco, se gli devasti la casa per rubargli i soldi della pensione, ma tra fratelli non ci si fa del male». In Italia una logica del genere viene definita, nella migliore delle ipotesi, mafiosa e non ci si trova nulla di così positivo per il quale valga la pena di girare un film.
Ma Spike Lee va anche oltre, come in “Mo’ Better Blues”, dove la descrizione dei gestori del locale (John Turturro e suo fratello Nicholas) sembra ricalcare in pieno l’iconografia lombrosiana dei Protocolli dei Savi di Sion. Ma se quella caratterizzazione può essere letta come una pura cattiveria personale rivolta espressamente verso il padre, fresco di seconde nozze con una donna ebrea, il buon Spike ci ricasca con gli italiani in “Do The Right Thing”, in cui i personaggi di Danny Aiello e John Turturro sono un tantino forzatamente italoamericani, ovvero mafiosi e arroganti in perfetto stile copertina dello Stern con P38 sul piatto di spaghetti. Ma non è tutto. Lee si incazzò come una bestia perché “Hurricane”, il film con Denzel Washington che narrava le gesta del pugile di colore Rubin Carter, fu affidato a Norman Jewison, regista ebreo. Non sfuggì alla sua corrosiva vis polemica nemmeno “Il colore viola”, poiché a suo avviso lo doveva dirigere un afro-americano e non l’ebreo Spielberg. Fu più tenero con Jonathan Demme che aveva diretto “Beloved”, ma solo perché la pellicola era stata prodotta da Ophra Winfrey, icona afro-americana dell’entertainment. E ora? Ora è il turno dell’insulso “She hate me”, una storia di sesso, soldi e politica che trae ispirazione dai recenti scandali finanziari americani come Enron e Worldcom, dai casi come quello di Martha Stewart oltre che dalle polemiche sulla procreazione assistita. Così si seguono le vicende di John Henry Armstrong – interpretato da Anthony Mackie – giovane vicepresidente di una società farmaceutica che dopo il suicidio di un collega denuncia alla Sec (Stock and Exchange Commision, la commissione americana di controllo sulla Borsa) alcuni illeciti commessi dai suoi capi relativi ad un miracoloso vaccino contro l’Aids (non a caso la malattia che sta flagellando l’Africa, con un mito afro come Nelson Mandela in prima fila per la distribuzione gratuita di farmaci). Da lì inizieranno i suoi guai, i suoi conti saranno chiusi e finirà sotto processo. Allo stesso tempo, la sua ex fidanzata che a un passo dal matrimonio si è scoperta lesbica, torna da lui con la nuova compagna per chiedergli di aiutarle ad avere un figlio, ovviamente dietro pagamento per la prestazione. Una offerta che l’uomo si trova costretto ad accettare e che gli aprirà la strada verso nuovi affari con altre lesbiche, tra cui anche una Monica Bellucci molto italoamericana e molto mafiosa. Il lupo perde il pelo…
A cura di Mauro Bottarelli, Rodolfo Casadei, Pietro Piccinini
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