Idee per un Green deal europeo che sia un’occasione (non fuffa verde)

Di Massimiliano Salini
12 Febbraio 2020
L'esoso piano della Commissione europea per l'economia sostenibile può essere l'ennesima conferma che a Bruxelles vige la legge del più forte. Oppure l'impulso per un vero rilancio
Protesta ambientalista contro i cambiamenti climatici

Articolo tratto dal numero di febbraio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Il Green deal è una vera e propria sfida. E si trasformerà in opportunità nella misura in cui l’Europa saprà mettere al centro la persona e valorizzare chi sa fare innovazione. Più precisamente, se saprà valorizzare la sua libertà e la propensione che la accompagna: quella ad intraprendere, accettando il rischio di creare e mettere alla prova il genio di cui è dotata, nel tentativo di muoversi verso il bene, generando valore per sé e per gli altri.

Insomma: vogliamo scommettere sul Green deal non perché l’Europa diventi anzitutto più green – vanta infatti già performance da record – ma perché diventi più innovativa.

Com’è intuibile, non si tratta in primis di target ambientali, peraltro tanto ambiziosi da sfiorare l’irraggiungibile, come la neutralità climatica entro il 2050. Siamo piuttosto di fronte al riemergere in forme nuove del rischio più serio che storicamente accompagna l’Europa e che spesso prende la forma di gravi disfunzioni interne e diseguaglianze tra fasce della popolazione. Problemi che già assumono il nome di dumping, concorrenza sleale interna ed esterna, o che si materializzano sotto forma di penalizzazione cronica dei paesi dell’area mediterranea rispetto a quelli del Nord Europa; o ancora, che colpiscono la spina dorsale della manifattura europea la quale, a causa di norme sbagliate e dell’inerzia politica, subisce un gap che la danneggia, a beneficio della parte mercatista del continente.

In altre parole, torna il pericolo che dietro ai ripetuti appelli europei all’unità e ai richiami a questa nuova “solidarietà ambientalista”, si sia tentati di cedere ancora una volta alla legge del più forte, non tanto di chi arriva primo perché è più bravo, quanto di chi pretende di imporre una direzione a discapito di altri, muovendosi senza una visione di società, mettendo i pesi sulle spalle altrui e tenendo per sé la gran parte dei benefici. Con un’illusione: che tutto questo, più o meno sotto traccia, possa continuare. Non è così: perché l’Europa o sarà unita e si svilupperà come un corpo organico oppure non sarà.

Mi spiego con un esempio. Il Green deal lanciato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si propone di mobilitare investimenti per centinaia di miliardi sul lungo periodo. Lo stanziamento di partenza, con il quale si è deciso di assegnare subito dei fondi ai singoli paesi, ha però una dotazione molto limitata, pari a 7,5 miliardi di euro tra 2021e 2027. La Polonia, tradizionalmente critica verso le politiche verdi per la sua dipendenza dal carbone, risulta essere il primo beneficiario in termini quantitativi. E qui c’è la prima criticità. Difficile infatti sfuggire all’impressione che, ancora una volta, come accade da decenni, l’Ue, invece di puntare ad una condivisione delle politiche comunitarie e alla valorizzazione delle best practices delle imprese, utilizzi la scorciatoia di erogare denaro per convincere i paesi riottosi a rimanere entro il perimetro europeo.

Pure la Germania riceverà un corposo finanziamento (è il secondo assegnatario). Anche qui il problema non è tanto la portata dello stanziamento ma la dinamica che lo accompagna. Si sta certamente sostenendo – doverosamente, aggiungo io – la riconversione industriale di alcuni Länder tedeschi come la Sassonia, che soffrono particolarmente la dipendenza da combustibili fossili altamente inquinanti. Il nodo da sciogliere è nell’incoerenza della politica sottesa a queste scelte industriali: mentre da un lato in Germania si promuove infatti lo sviluppo di un’industria sempre più verde, dall’altra parte, per velocizzare l’elettrificazione del settore automotive, ci si consegna gradualmente ad una sostanziale dipendenza dalla Cina, primo produttore di batterie del mondo, con accordi strutturati che non favoriscono certo l’innovazione tecnologica europea ma che anzi la danneggiano e ci espongono sempre più all’aggressività e all’espansionismo del gigante di Pechino.

È un fatto che una parte corposa dell’innovazione tecnologica di cui beneficiano la filiera automotive e il settore manifatturiero tedesco – una porzione irrinunciabile, in grado di fare la differenza in termini di qualità del prodotto finale – proviene da piccole e medie imprese del Nord Italia, che non a caso vantano solidi contratti di fornitura ultra ventennali con grandi aziende tedesche ed europee. Ebbene: sono le stesse piccole e medie imprese italiane che hanno già vinto la sfida del Green deal perché da decenni fanno ricerca e realizzano quella sostenibilità ambientale di cui noi italiani siamo leader e che saremo noi a potere insegnare al resto del mondo, come confermano i dati di Confindustria, secondo i quali il nostro paese produce emissioni di gas serra che, in rapporto al Pil, sono più basse del 21 per cento rispetto alla media Ue.

A chi erogare i fondi

Se quindi da un lato è giusto erogare fondi per sostenere la riconversione “verde” nei paesi dell’Est meno sviluppati o nelle aree con rilevanti criticità ambientali come l’ex Ilva di Taranto, dall’altro è fondamentale premiare con risorse adeguate chi, come le piccole e medie imprese e le numerose aziende italiane, la svolta “green” non solo la sta già attuando, ma da anni si propone quale modello europeo di sviluppo.

Il Green deal non deve essere uno slogan ideologico ma un’opportunità. È prioritario che il nuovo ambizioso taglio del 55 per cento delle emissioni di Co2 entro il 2030 proposto come target dall’Europarlamento nella plenaria di gennaio sia accompagnato da precise valutazioni dell’impatto che avrà sulla manifattura. Come Forza Italia, vigileremo sull’operato del governo italiano e della Commissione europea affinché non solo l’ex Ilva riceva fondi adeguati ma siano anche valorizzate le migliaia di industrie e Pmi che si distinguono per l’eccellenza tecnologica e ambientale.

D’altronde l’Europa è responsabile solo del 9 per cento delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. Non è certo sacrificando la vocazione e la propensione a fare bene delle nostre aziende che raggiungeremo l’obiettivo. Un Green deal che finanzia la transizione verso politiche sempre più pulite ma contemporaneamente ne taglia alla radice la condizione basilare, quella capacità di intraprendere e di fare innovazione, è destinato a fallire.

Sostenere chi rischia

Si tratta di minacce anti-impresa da scongiurare con determinazione in ogni loro forma. Ad esempio opponendoci al rischio che la stessa Europa finanzi la ricerca ma non intervenga poi con un altrettanto importante riforma organica della tassazione, arrivando ad un’unica base imponibile tra Stati; o evitando che finanzi l’innovazione in modo sbagliato, lasciando che i fondi vadano non alle Pmi bensì agli enti di Stato o ai grandi player multinazionali che prendono soldi dall’Europa pur avendo sede e testa pensante fuori dal continente, mentre chi dimostra capacità imprenditoriale, alla fine, resta a bocca asciutta e non viene premiato.

Lasciando irrisolti tutti questi nodi si concretizzerebbero i timori di chi contrasta il Green deal perché sostiene che sia contro l’uomo. Non lo è. Ma ad una condizione: che la libertà sia il punto di partenza e che l’uomo, con le sue aspirazioni più profonde, non sia un rischio ma un’opportunità. Ecco perché il piano europeo riuscirà soltanto nella misura in cui promuoverà davvero la libertà di impresa: ancora una volta il sostegno a chi rischia, intraprende e dà prova di genio è la cartina di tornasole per misurare la bontà di una politica economica e di una visione della società che non sia di mero predominio di pochi, a danno dell’intera comunità.

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Massimiliano Salini, autore di questo articolo, è deputato del Parlamento europeo e coordinatore di Forza Italia in Lombardia

Foto Ansa

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