I tabù antirazzisti hanno mandato in cortocircuito il New York Times

Di Pietro Piccinini
13 Febbraio 2021
Il processo al reporter Donald McNeil e le critiche che il quotidiano non ha voluto pubblicare. Un caso di scuola di autocensura acrobatica
Copia del New York Times con foto di Biden in prima pagina

L’auto-censura politicamente corretta è diventata una pericolosa paranoia ormai al New York Times, specialmente quando il tema implicato è il razzismo. Un’ossessione che ha già preteso in olocausto il sangue di gloriosi giornalisti (disclaimer: trattasi di metafora), e che ora rischia seriamente di esplodere fra le mani del quotidiano di riferimento della sinistra americana.

L’ultima “epurazione” illustre, quella di Donald G. McNeil, reporter di punta del New York Times sull’emergenza Covid, accusato di aver usato in pubblico un epiteto razzista, ha scatenato un terremoto interno al quotidiano, sia per i fatti che hanno portato alle sue dimissioni, sia per le loro possibili conseguenze sulla libertà di espressione.

L’ARTICOLO RIFIUTATO

Il pericolo letale per il dibattito era apparso terribilmente concreto già nei mesi scorsi con altri casi raccontati da Tempi: le dimissioni di James Bennet, ex responsabile della pagina delle opinioni del New York Times, spinto all’uscita perché “colpevole” – ironia della sorte – di aver pubblicato un’opinione sgradita alla redazione sulle proteste antirazziste e violente dell’estate scorsa; e l’addio di Bari Weiss, giornalista di orientamento moderato assunta dal quotidiano liberal proprio per riequilibrarne lo sbilanciamento a sinistra, ma costretta ad arrendersi esasperata dal “bullismo” dei colleghi.

Ora la liquidazione di McNeil scoperchia definitivamente tutto il potenziale di questa crisi interna, perché a denunciare l’accecamento ideologico che ha portato alle dimissioni dello stimato cronista stavolta non sono i concorrenti del New York Times, ma il commento di un suo editorialista, Bret Stephens, commento che però il New York Times aveva deciso di non pubblicare. Peccato che l’articolo ha preso a girare tra lo staff del giornale e gli amici dell’autore, è diventato una notizia grazie a Nbc e ha finito per essere pubblicato (furbescamente) dal New York Post.

INDAGINE, ARCHIVIAZIONE, CONDANNA

A provocare la reazione di Stephens e le sue critiche al direttore del New York Times, Dean Baquet, è il fatto che nel “condannare” McNeil i vertici del giornale abbiano espressamente scelto di ignorare il contesto e le intenzioni che avevano portato il reporter a usare la parola dello scandalo: “nigger”. Racconta il commentatore:

«La scorsa settimana, Donald G. McNeil Jr., un reporter scientifico del Times con lunga esperienza, ha lasciato bruscamente il suo impiego in seguito alla rivelazione che aveva pronunciato un insulto razzista durante un viaggio del New York Times per studenti del liceo in Perù. Nel corso di una discussione a tavola, uno studente gli aveva chiesto se secondo lui un’alunna 12enne dovesse essere sospesa dalla scuola per aver girato un video in cui utilizzava un insulto razzista.

Nelle scuse che ha scritto al personale, McNeil ha spiegato che cosa era accaduto dopo: “Per capire cosa ci fosse in quel video, ho chiesto se la ragazza avesse rivolto l’insulto a qualcun altro o se invece stesse rappando o citando il titolo di un libro. Nel porre la domanda, ho utilizzato l’insulto stesso”.

In un primo comunicato allo staff, il direttore Dean Baquet spiegava che, dopo un’indagine da lui condotta, si accontentava del fatto che McNeil non avesse utilizzato l’insulto in malafede e che non ci fosse giusta causa per un licenziamento. Per tutta risposta, più di 150 dipendenti del Times hanno firmato una lettera di protesta. Pochi giorni dopo, Baquet e il managing editor Joe Kahn hanno preso un’altra decisione.

“Non tolleriamo il linguaggio razzista, a prescindere dalle intenzioni”, hanno scritto venerdì pomeriggio [5 febbraio, ndt]. E a questo giudizio ambiguo hanno aggiunto che il giornale “lavorerà con urgenza per creare linee guida più chiare riguardo ai comportamenti sul luogo di lavoro, con massima attenzione al problema del linguaggio razzista”.

Questo non è un commento sui dettagli del caso McNeil. Né voglio mettere in discussione qui il fatto che l’insulto razzista in questione abbia una storia di una cattiveria unica e una capacità eccezionale di ferire.

Quello che voglio discutere qui sono quattro parole: “A prescindere dalle intenzioni”. Le intenzioni sono l’unica cosa che conta nel giudizio? Ovviamente no. Le persone possono fare cose dolorose, offensive, stupide o discutibili a prescindere dalle intenzioni? Ovvio.

Ma qualcuno di noi vorrebbe forse vivere in un mondo, o lavorare in un ambito, in cui le intenzioni siano categoricamente escluse dai fattori attenuanti? Mi auguro di no. E questo vale nel giornalismo tanto quanto in qualunque altra professione, se non di più».

LE INTENZIONI CONTANO ECCOME

Scavare nelle intenzioni, spiegare, approfondire, restituire i chiaroscuri e le diverse sfaccettature delle storie, delle persone e dei problemi è proprio il core business del giornalismo, insiste Stephens. Lo scopo dell’informazione di qualità dovrebbe essere far riflettere il lettore. E un pensiero che dovrebbe suonare banale (ma che evidentemente non lo è più) è appunto che «c’è una differenza tra il citare una parola al fine di comprendere e capire e l’utilizzare la stessa parola con lo scopo di insultare e far male», osserva Stephens. «Perdete questa distinzione, e perderete anche la capacità di capire le cose a cui si presume che vi opponiate».

L’avvertimento dell’editorialista nell’articolo rifiutato è pesante:

«Un segno distintivo dell’ingiustizia è l’indifferenza alle intenzioni. La maggior parte di quello che c’è di crudele, intollerante, stupido e sbagliato nella vita deriva da tale indifferenza. Leggete i racconti di cosa fosse la vita nelle società repressive – consiglierei ‘Il potere dei senza potere’ di Vaclav Havel e ‘Life and Death in Shanghai’ di Nien Cheng – e resterete colpiti innanzitutto da quanto ai regimi interessi il conformismo esteriore, e quanto poco le intenzioni personali».

ANTISIONISMO E ANTISEMITISMO

Nel pezzo scartato dal New York Times, Stephens ripesca anche la citazione di un dirigente repubblicano che contiene la parola incriminata “nigger”, e che lo stesso quotidiano ha utilizzato più volte proprio per stigmatizzare il razzismo. Un bel cortocircuito.

Ma l’affondo più affilato arriva con l’esempio finale, quando Stephens sfiora una corda delicatissima per un giornale progressista come il New York Times: l’antisemitismo. Tema reso ultra sensibile dalle accuse contenute nella lettera di dimissioni di Bari Weiss (la donna denunciava di essere divenuta bersaglio dei colleghi anche per le sue posizioni filoisraeliane).

«“Linguaggio razzista” non riguarda una singola parola ignobile. È una categoria ampia, cangiante e contestabile. Molte persone – compreso me – pensano che l’antisionismo duro e puro sia una forma di antisemitismo. È anche la linea ufficiale del Dipartimento di Stato e del Partito laburista britannico. Ebbene, se l’antisemitismo è una forma di razzismo, e se il linguaggio razzista è intollerabile al Times, allora un giorno potremmo non solo vietare la promozione di idee antisioniste, ma perfino rifiutarci di consentire che siano discusse? L’idea è assurda. Ma adesso è questo il terreno in cui rischiamo di entrare».

IL RAMMARICO DEL DIRETTORE

Che la vicenda di McNeil sia destinata a lasciare un segno, tra critiche dall’esterno e psicodramma all’interno del New York Times, lo testimonia anche il fatto che giovedì scorso lo stesso direttore Dean Baquet in una riunione con lo staff abbia riconosciuto di essersi spinto un po’ troppo al largo con le dichiarazioni: «È stato un errore e me ne rammarico», ha ammesso. «Certo che le intenzioni contano quando si tratta di linguaggio e giornalismo. L’insulto in discussione è spregevole. È stato usato contro di me. Ma è apparso sulle nostre pagine e senza dubbio apparirà ancora». Sempre che qualcuno adesso trovi il coraggio di scriverlo.

Foto: Jon Tyson per Unsplash

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