I solisti centristi

Di Alessandro Giuli
27 Settembre 2007
Dal governo del pallottoliere alle pallottole sul governo. Che Prodi cadrà ormai è certo, solo non si conosce il sicario. I sospettati, però, sono tutti volti noti. E molto, molto Dc

Chi ucciderà il governo Prodi? Probabilmente sarà un inciampo personale in Senato, forse dopo il varo di una Finanziaria dal sapore già molto elettorale (vedi il cosiddetto bonus per i poveri, l’esenzione sull’Ici per le case popolari, più varie ed eventuali concessioni ai clientes del partito veltroniano). O forse sarà la follia irriducibile di qualche senatore-Carneade alla ricerca d’un raggio di luce. Ovvero ci sarà qualcosa di più, un complotto “di sistema”, un cedimento architettato dall’alto di qualche stanza grigia e potente. Proviamo a investigare. Con una premessa: di suo il Professore bolognese non ne può più davvero. L’ultima recita bislacca a Palazzo Madama, quella della settimana scorsa in occasione del voto sul cda Rai, ha insinuato nella sua pelle spessa e verde il desiderio di uscire da vittima prima che sia troppo tardi per rifarsi una reputazione. Epperò si sa che per l’attuale premier questo è l’ultimo giro sulla giostra della vanità politica, sicché resterà corazzato ancora, al massimo sfidando i sicari dell’Unione a farsi avanti presto perché lui possa soppesare le loro reali intenzioni. Si cade anche così, sfidando la vipera senza antidoto nel tascapane. Ma un guizzo di stile ci verrebbe offerto.
mastella In ogni caso a Palazzo raccontano tutti che la maggioranza è destinata a crollare dal centro. Magari fosse possibile, sospira invece Clemente Mastella, il solo oligarca cui il centrodestra riserva attenzioni quasi sentimentali sperando di ricavarne lo scatto necessario al tramonto dell’ulivismo. Il fatto è che Mastella ha un grumo di dubbi e un progetto in corso che non si addicono all’identikit dell’assassino autunnale. Intanto – e lui l’ha spiegato già in mille lingue all’amico ritrovato Silvio Berlusconi – c’è che il suo elettorato potrebbe non capire (e soprattutto non premiare) il gesto estremo d’un moderato che affonda un brutto governo per consegnarsi nelle mani di altri moderati sputacchiati ma potenti quanto basta a succhiare l’anima elettorale dell’Udeur (tra poco arriviamo a Pier Ferdinando Casini). E poi, appunto, il piano numero uno dei mastelliani è un altro e non corrisponde alla felicità del Cavaliere. Perché Mastella non può far deflagrare l’Unione lasciando immutati il profilo e gli equilibri dell’attuale bipolarismo. Giustamente gli chiederebbero perché mai ha accettato di governare con Oliviero Diliberto e Fausto Bertinotti, se poi era destino che tornasse nella casa del berlusconismo ancora arrembante. Insomma, al centro si può cadere, pensa Mastella e con lui tanti altri, purché sempre dal centro ci si rialzi con la veste nuova e splendente dei moderati riuniti e inamovibili. Ma come?
Di fondo dipende sempre da Berlusconi, se solo accettasse di giocarsi ai dadi una legge elettorale senza premio di maggioranza e non troppo vincolata all’idea di un bipolarismo inclusivo e antiproiettile. Se soltanto il Cavaliere accettasse di disseppellire un “asse del sacro” con l’ex amico Pier, allora sì che ogni ricombinazione sarebbe possibile. Perché Mastella le proprie fiches le sta giocando sull’accordo a medio termine con l’Udc casiniana, e non è un mistero, per arrivare alle europee del 2009 (in regime di proporzionale puro) con una lista unitaria dall’antico sapore democristiano. E in aggiunta si aspetta: 1) un treno carico di regali neocentristi provenienti dal cosiddetto popolo del Family day, cioè da Savino Pezzotta e Andrea Riccardi di Sant’Egidio (per fare giusto due nomi, il secondo dei quali corteggiatissimo da Walter Veltroni); 2) un vagone rimpannucciato ma autorevole di teodem delusi dall’amletico Francesco Rutelli (Enzo Carra, Luigi Bobba, Paola Binetti, Marco Calgaro e altri) e intenzionati a riparare in un luogonuovo disinfestati dai catto-democratici di Dario Franceschini (l’ala dura dei Popolari mariniani); 3) un volto di quelli semi-immortali che garantiscono all’operazione l’ancoraggio a una tradizione temibile, uno che insomma assomigli a Giulio Andreotti. Chissà che botto.

Pezzotta Affinché il sogno si avveri, tuttavia, molte variabili dovrebbero trovare una collocazione virtuosa. Pezzotta, per dire, ha meno fretta di esserci che non paura d’essere dimenticato. Perciò si avvia verso i primi freddi con la volontà di farsi notare: farà una conferenza stampa, un seminario, un’assemblea nazionale e cercherà di appropriarsi della casacca “popolare” per sottrarla al mercato del Partito democratico e piantarla nella terra mobile del proprio movimento dal sapore europeo e post-dc. Un modo per aggredire il tempo che passa, nell’attesa di assistere alla crisi nera del bipolarismo prodian-berlusconiano. Insomma lui a fare una lista con Mastella e Casini ci sta. Sono loro due che cincischiano troppo dalle parti del sempreverde Berlusconi, auspicando sì di ottenere la legge che tutti i democristiani vorrebbero, ma offrendosi (per lo più l’Udc) di sostenere comunque un’eventuale riedizione elettorale della Casa delle Libertà per il 2008.

Casini Pier Ferdinando è ormai più furbo che giovane e ha bisogno di certezze. Dal suo punto di vista fa bene a corteggiare il Cavaliere o a non opporgli più la faccia indisponente d’un tempo: il padrone di casa è ancora lui, tanto vale isolarlo finché possibile dai ragli leghisti e dalle inconcludenti oscillazioni finiane. Ma, nel dubbio, guai anche a chiudere l’opzione d’un governo di salute nazionale da affidare a Franco Marini, sapendo che la dura legge dei numeri riserverebbe un ruolo decisivo a Berlusconi e Gianfranco Fini. Sintesi: il nuovo centro c’è ma non può muovere per primo se non dispone della leva elettorale che giustificherebbe l’affondamento del prodismo.

Dini Veniamo a un altro sospettato di rango, Lamberto Dini. Di lui si dice che obbedisca geometricamente ai desideri di un establishment del quale è stato per tanti anni il rappresentante spregiudicato insieme con Antonio Maccanico. La sua aria da civil servant evoca l’atmosfera del patto di sindacato Rcs e le grisaglie di Piazzetta Cuccia. Ma la finanza italiana non è più quella degli anni Novanta. Gli Agnelli hanno perduto le ali, Confindustria ha uno scettro debole, Goldman Sachs investe su nuovi campioni. Senza contare che, in tempi di logorio parlamentare e antipolitica ingigantita ad arte, i nomi vellutati per un eventuale premier di garanzia, i volti del sempre possibile tutorato sulla partitocrazia malmostosa, sono quelli dell’eccellentissimo Mario Monti e dell’ambizioso (ma titubante) Luca Cordero di Montezemolo. Ecco il punto: Dini ha strappato un lembo della vela prodiana e ora gioca in solitudine aspettando una chiamata squillante. Ma proprio per questo non può accontentarsi di fare il Caronte che traghetta l’anima storpia del centrosinistra verso le urne. Con quale vantaggio, poi, dovrebbe affondare la maggioranza, acconciarsi a un interregno e senza neppure la certezza di vendemmiare in un suo eventuale premierato a scadenza ravvicinata? Di là dalle generose profferte berlusconiane, è evidente che il suo ex ministro non intende limitarsi a governare per pochi mesi. Ed è altrettanto evidente che il Cavaliere, già umiliato dall’esperienza del 1995 (quando Oscar Luigi Scalfaro gli aveva promesso che il governo Dini non sarebbe durato più d’una notte), non si farebbe uccellare una seconda volta. Sintesi: la casella tecnocratica al momento resta libera per mancanza d’intese credibili e attori determinati.

Veltroni E arriviamo a Walter Veltroni. In un mondo non capovolto dovrebbe essere lui, una volta incoronato segretario del Pd, a svelarsi come la soluzione più immediatamente alternativa al pasticciaccio ulivista. Ma Veltroni non ha un cuore d’acciaio e vede con terrore la prospettiva di andare al voto l’anno prossimo con addosso il marchio del prodicida, e contro un Berlusconi potente e implacabile. L’ideale, per il sindaco di Roma, è che Prodi licenzi una Finanziaria balsamica e debole, in modo da rinviare la resa dei conti con il centro e con la sinistra massimalista (il solo fronte veramente prodiano, se pure per disperazione), dopodiché accada quel che deve accadere. Quasi certamente non uno scioglimento istantaneo delle Camere, non un voto primaverile. Ci vuole tempo per allattare la creatura democrat.

Marini D’accordo, ma allora Romano Prodi resta lì ancora per quanto? Al Senato – piani alti e area Popolari – si diceva giorni fa che la ghigliottina è pronta: basta un petardo di politica estera o una follia sul welfare accorpato alla manovra. L’inferno afghano sembra aver dissotterrato un nuovo e grave casus belli. Vedremo come si comporterà il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema. I comunisti giurano che lui non ha ancora rinunciato alla pazza idea di cuocere Prodi e Veltroni nella stessa pentolaccia. Ma questa volta Franco Marini sta con Walter ed è più forte di D’Alema e Prodi. Quando il Professore di Bologna cadrà, ed è certo che cadrà, bisognerà chiedere al presidente del Senato se crede ancora nel progetto di candidare Walter a Palazzo Chigi per lasciare a Dario Franceschini la guida del Pd. Con l’attuale legge elettorale non c’è speranza di scombinare i suoi piani. Con un sistema cucito sulle misure del centro, chissà che pure il vecchio democristiano non si lasci tentare dalla società per azioni spericolate di Mastella e Casini. Come sempre (ma non per sempre), dipende quasi tutto dalle ubbie berlusconiane.

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