
I Santegidi e la lezione di Durban
Fra le lezioni che dobbiamo trarre dall’esito della Conferenza di Durban sul razzismo ce n’è una che riguarda la diversità dei conflitti e l’approccio alla loro soluzione. Tutti hanno notato che sulla questione della tratta schiavista un compromesso fra europei ed africani (positivo anche per gli americani) è stato raggiunto, mentre la questione mediorientale non ha trovato, nonostante sforzi e colpi di teatro, una soluzione unanime. Ciò significa, evidentemente, che non tutti i conflitti sono uguali: ci sono conflitti che le parole possono abbastanza agevolmente mediare, e altri irriducibili all’ingegnosità delle formule verbali.Perché è più facile un accordo fra africani ed europei che fra israeliani e palestinesi? Perché il primo è un conflitto interno alla globalizzazione, i cui processi vanno per definizione nel senso dell’integrazione, il secondo invece è antecedente alla globalizzazione, anzi si oppone ai suoi meccanismi di unificazione in nome di irriducibili identità. Il primo presenta tutti i caratteri della globalizzazione: è deterritorializzato (non c’è contesa sulla terra), virtuale (non si affrontano eserciti né si alzano nuove barriere commerciali) e dispone a piacimento della memoria storica, modellandola secondo criteri opportunistici. Gli africani hanno rinunciato alla loro visione della storia (europei e americani come unici colpevoli dello schiavismo, da classificare come “crimine contro l’umanità” tale da esigere riparazioni anche oggi) in cambio dell’impegno del mondo ricco ad intensificare la cooperazione con loro. Il loro obiettivo era, sin dall’inizio, usare il forum di Durban per negoziare migliori condizioni per l’integrazione dell’Africa al mercato globale (più aiuti, più investimenti, ulteriori cancellazioni del debito estero).
Tutto il contrario il conflitto israelo-palestinese, che del tradizionale conflitto nazionalista ha tutti i caratteri: è territoriale (ci si contende una terra), reale (si combatte con armi vere e produce vittime direttamente) mira alla disintegrazione e non all’integrazione (ci sono due popoli ben distinti che vogliono precisare i termini della loro separatezza) e soprattutto verte sull’indisponibilità della memoria storica: ebrei e palestinesi non possono tradire il sangue dei rispettivi martiri, non possono in alcun modo concordare una versione di convenienza della storia, perché dalla rispettiva lealtà verso i propri morti e il proprio passato dipende la loro soggettività storica e quindi la legittimità delle loro pretese. Questo genere di conflitti richiede procedure negoziali e mediatori che non sono quelli di una Conferenza Onu, e nemmeno quelli di una conferenza alla Sant’Egidio. La diplomazia virtuale, che produce immagini, va bene per i conflitti virtuali del mondo global; per i conflitti del mondo pre-global, che riguardano entità reali come sangue, terra e popoli, serve una diplomazia più tradizionale.
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