Terra di nessuno

I miei due fratelli ignoti

Di Marina Corradi
01 Febbraio 2012
Ora li penso non come vecchi, defunti, lontani, ma come due che potrebbero essere miei figli, la barba incerta sulle guance lisce. E la madre? Mi atterrisce l’idea di quel dolore portato dentro per tanto tempo, piombo nel cuore

Articolo apparso su Tempi n.37/2011

L’altra mattina al Cimitero monumentale mi è caduto lo sguardo su una tomba da cui si alzano, parallele, due lance – come in memoria di due guerrieri. Mi sono avvicinata; un cognome della borghesia milanese, un padre avvocato e partigiano. Sua moglie, e due figli. Nati esattamente a un anno di distanza, nell’ottobre del ’20 e del ’21; e morti giovanissimi, partigiani in val d’Ossola, uno il 20 e l’altro il 22 giugno del ’44. Queste due morti così acerbe e parallele mi colpiscono; vorrei sapere la storia di quei due – ma sulla tomba non c’è nemmeno una foto.

E non so perché esattamente, ma a casa metto in “cerca” su Google i loro nomi. Eccoli, entrambi hanno avuto una medaglia al valore alla memoria; e su una casa nel centro di Milano, apprendo, una targa di marmo li ricorda – quelle lapidi, immagino, che hanno un fiore solo il 25 aprile, e che non legge più nessuno. Imparo anche che la famiglia riparò dopo l’8 settembre in Svizzera; ma i due, evidentemente irrequieti in una troppo stretta pace, ripassarono, fieri, il confine.

Come andò, che morirono quasi insieme? Trovo risposte diverse e discordanti; secondo alcuni il fratello maggiore, nel tentativo di sfuggire a un rastrellamento, precipitò in un burrone; il minore, catturato dai tedeschi, due giorni dopo venne fucilato. Su un sito però leggo che il più giovane si calò in quel burrone per ricomporre il corpo del fratello. E mi pare allora quasi di vedere. Vent’anni forse anche di gelosie, baruffe, emulazione, come tra fratelli vicini di età accade; abbracciati infine nel gesto muto in una sera di giugno – di quelle di solstizio, lunghe e chiare, che sembrano non volere morire.

Ma il pensiero dei due sconosciuti mi insegue ancora, insistente; tanto che a un certo punto mi domando, quasi irritata, in cosa poi mi riguardi la loro storia, e cosa m’abbia spinto a cercarne le tracce. A soffermarmi sul web sulle vecchie foto che mostrano due giovani dalla faccia forte; più battagliero il minore, mi sembra, più chiuso e taciturno l’altro. Avranno fatto in tempo, mi chiedo, a innamorarsi? C’era, una ragazza che li aspettava? Se c’era, faccio il conto, oggi ha più di ottant’anni. Forse la vecchia signora che ho incrociato, sola, sul viale del cimitero? 

Ventitré anni, ventidue, mi ripeto, e ora li penso non come vecchi, defunti, lontani, ma come due che potrebbero essere miei figli – la barba ancora incerta sulle guance lisce. 

E la madre? Chi lo disse alla madre? Scopro che visse molto a lungo: e mi atterrisce l’idea di quel dolore portato dentro per tanto tempo, piombo nel cuore, mentre attorno l’Italia dimenticava, ricominciava, viveva. Quella madre che cent’anni fa, faccio il conto, era una fanciulla dell’età di mia figlia, oggi; e come mia figlia, immagino, sognava. (Come tutti, nel silenzioso giardino fitto di croci, siamo in realtà vicini. Pregare per due ventenni mai incontrati e per la loro madre; come fossimo davvero tutti foglie di un’unica vite, grande, che si dirama da una sola possente radice).

 

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