
I “diritti” di fine vita

Riprendendo presso la Camera dei Deputati l’iter del testamento biologico che camuffa procedure realmente eutanasiche – anche non consensuali, come nel caso in cui siano i genitori a decidere per i minori –, occorre far chiarezza su quei diritti che spesso vengono invocati per sostenere una normativa del fine vita, ma che rischiano di essere violati proprio dalle modalità con cui quest’ultima viene formalizzata.
In un primo momento occorre sempre garantire il diritto al consenso informato, cioè la tutela della consapevolezza del paziente di comprendere e decidere il percorso terapeutico, l’evoluzione della patologia, le probabilità e i tipi di esiti a cui può andare incontro.
In un tale contesto appare del tutto contrario a tale diritto l’idea di poter fare decidere qualcun altro, o di decidere per chi non può prestare un vero e proprio consenso, come per esempio i minori, specialmente infraquattordicenni.
Infatti, se il consenso informato esprime lo scudo dell’autonomia del paziente e della sua libera volontà contro ogni eventuale deriva paternalistica, è paradossale che tale principio sia poi ridimensionato proprio nel caso delle persone più deboli come i minori mettendo in essere una nuova forma di paternalismo, ma con finalità rischiosamente eutanasiche.
Un secondo diritto che emerge è il diritto di rifiutare i trattamenti terapeutici, poiché lo stesso articolo 32 della Costituzione garantisce una tale facoltà.
Ciò significa che deve sempre essere ritenuto eticamente e giuridicamente non ammissibile l’ , cioè la prosecuzione di quegli interventi terapeutici che non sono più in grado di raggiungere lo scopo per cui sono messi in essere.
Ovviamente, un tale diritto, deve essere manifestazione della libera volontà del paziente e può riguardare soltanto quei trattamenti che per l’appunto sono terapeutici, cioè diretti a debellare l’intera o una parte della patologia per cui sono predisposti.
Non possono, dunque, essere considerati tali i trattamenti non terapeutici, come per l’appunto quelli di sostegno vitale quali alimentazione, idratazione e ventilazione.
In questo senso il Comitato Nazionale per la Bioetica è stato più che esplicito allorquando ha precisato che «acqua e cibo non diventano infatti una terapia medica soltanto perché vengono somministrati per via artificiale […]. Nella misura in cui l’organismo ne abbia un obiettivo beneficio nutrizione ed idratazione artificiali costituiscono forme di assistenza ordinaria di base e proporzionata (efficace, non costosa in termini economici, di agevole accesso e praticabilità, non richiedendo macchinari sofisticati ed essendo, in genere, ben tollerata). La sospensione di tali pratiche va valutata non come la doverosa interruzione di un accanimento terapeutico, ma piuttosto come una forma, da un punto di vista umano e simbolico particolarmente crudele, di “abbandono” del malato».
Proprio per questo, si configura il terzo fondamentale diritto di fine vita, cioè, appunto, il diritto a non essere abbandonato.
Anche dopo la rinuncia o il rifiuto del paziente di continuare o intraprendere un percorso terapeutico, il medico non può abbandonarlo al suo destino, dovendo continuare a somministrargli i trattamenti non terapeutici necessari.
Se è vero, come è vero, che l’accanimento terapeutico non può essere considerato moralmente accettabile, occorre altresì ammettere che anche l’abbandono terapeutico è altrettanto immorale e antigiuridico facendo mancare l’assistenza medica che non deve e non può operare soltanto in scienza, ma anche in coscienza, cioè secondo la dimensione ontologica della relazione umana.
Ecco quindi profilarsi il quarto diritto di fine vita, cioè il diritto ad essere curato, anche quando da un punto di vista terapeutico non vi sono più ragionevoli probabilità di successo, anche quando il trattamento terapeutico è stato sospeso secondo la volontà del paziente.
La cura, infatti, è qualcosa di diverso e di più ampio del “semplice” trattamento terapeutico.
Il paziente, anche dopo la sospensione della terapia, merita ancora di essere accudito, per esempio psicologicamente, per accettare lo stato terminale che si approssima o anche semplicemente umanamente, cioè con la semplice presenza del medico come persona che non isola il morente abbandonandolo al suo fatale destino.
In questa prospettiva affiora l’ultimo diritto di fine vita, cioè, appunto il diritto del paziente di non soffrire.
Il medico, qualora la morte imminente sia stata già prevista, deve quindi adoperarsi per lenire le sofferenze del paziente, cioè diminuirne l’entità, ma pur senza velocizzare o anticipare la morte.
In questo senso il Comitato Nazionale per la Bioetica ha ritenuto legittima e doverosa la sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte richiamando per di più la distinzione effettuata già da tempo da parte della European Association of Palliative Care per cui c’è differenza tra sedazione palliativa da un lato ed eutanasia o suicidio assistito dall’altro lato, poiché con la prima si accompagna il morente verso la morte, con i secondi invece si causa direttamente la morte stessa, potendosi quindi ritenere moralmente lecita la prima e non già i secondi.
In tale scenario l’attuale disegno di legge in tema di dichiarazioni anticipate di trattamento non sembra tutelare nessuno dei suddetti diritti, creando non solo situazioni ambigue, ma anche sicuramente illecite come nel caso della mascherata eutanasia dei pazienti minori d’età.
In conclusione, risuonano le parole di Montesquieu per il quale, «vi sono leggi che il legislatore conosce così poco, che sono contrarie allo scopo ch’egli si è proposto».
Foto Ansa
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