
I danni della cancel culture nelle università anglosassoni, messi in fila

La cancel culture continua a guadagnare posizioni nei campus del mondo anglosassone, provocando provvedimenti ridicoli e diffondendo un clima di caccia alle streghe fra docenti e studenti, ma almeno adesso c’è un database continuamente aggiornato che raccoglie tutti i casi arrivati all’attenzione dei media e che permette di farsi un’idea della situazione. Lo trovate sulla pagina web di The College Fix, un sito di informazione di proprietà della Student Free Press Association che ospita articoli per lo più di studenti aspiranti giornalisti.
Quattro casi a settimana nell’ultimo anno
«Nell’ultimo anno accademico, la cancel culture ha distrutto carriere di professori, rimosso dai campus i nomi e le statue dei loro padri fondatori e impedito agli studenti conservatori di esprimersi pubblicamente nei college e nelle università che frequentano», scrive Jennifer Kabbany, direttrice di The College Fix. «La cancel culture non è un fenomeno da prendere sotto gamba. Durante l’ultimo anno accademico 112 oratori, simboli, statue e altri oggetti sono stati completamente cancellati nei campus americani, mentre altri 74 tentativi di cancellazione sono andati a vuoto, secondo i dati che abbiamo raccolto nel Campus Cancel Culture Database del College Fix, che tiene traccia di tali incidenti. In totale abbiamo avuto 186 incidenti di cancel culture nei nostri campus dal 1° giugno 2021 al 31 maggio 2022. In altre parole, ci sono stati quasi quattro incidenti per settimana durante lo scorso anno accademico».
Il database registra anche incidenti di anni accademici precedenti. Al termine del suo intervento Jennifer Kabbany attira l’attenzione su quelle che ha identificato come le dieci «cancellazioni dei campus più ridicole dell’anno scolastico 2021-22». Purtroppo non sempre si tratta di esempi di ridicolaggine: talvolta l’ottusità mentale, l’estremismo politico, l’ipersensibilità e la permalosità provocano danni irreversibili a persone meritevoli di ben altra considerazione.
La virologa che anni fa si vestì da Michael Jackson
È il caso della virologa Julie Overbaugh, eletta l’anno scorso membro della National Academy of Sciences, che nel marzo scorso è stata costretta a lasciare una posizione dirigenziale presso il Fred Hutchinson Cancer Research Center e ha dovuto rassegnare le dimissioni da professore associato presso la Scuola di Medicina dell’Università di Washington a causa di accuse di razzismo per aver indossato un costume che rappresentava Michael Jackson a una festa di Halloween nel 2009. Una foto della festa svoltasi 13 anni, nella quale appare con la faccia annerita secondo la tecnica teatrale classica della “blackface”, ha spinto alcuni colleghi ad accusare di razzismo una donna che negli ultimi trent’anni si è impegnata anima e corpo a combattere l’Aids in Africa, dove ha condotto in Kenya studi sulla trasmissione materno-infantile dell’infezione.
Il centro di ricerca sul cancro ha scritto in un comunicato che sembra studiato per un campo di rieducazione cambogiano: «L’atto raffigurato nella foto è razzista, offensivo e doloroso, e ci scusiamo sinceramente a chiunque abbia provato dolore o sia rimasto sconvolto a causa dell’atto o di questa foto. La dottoressa Overbaugh si è dimessa dal suo ruolo di vicepresidente senior presso Fred Hutch. Continuerà a lavorare nel suo laboratorio e si prenderà una pausa dai suoi doveri di leadership presso l’Office of Education & Training. Durante questo periodo, si impegnerà in un intenso processo di educazione e riflessione».
Il caso di yellowface del 2010
Altri provvedimenti risentono della crassa ignoranza di chi li richiede e dello spirito di sottomissione delle autorità. Il presidente del Muhlenberg College Kathleen Harring ha diffuso una lettera di scuse perché nel 2010 il dipartimento teatrale del college ha autorizzato la recita di The Mikado, un’operetta ottocentesca nella quale gli attori sono truccati da giapponesi. «Sebbene questi spettacoli siano stati eseguiti più di 10 anni fa, è importante riconoscere l’impatto che l’uso degli stereotipi razziali ha avuto – e continua ad avere – sui membri della comunità di Muhlenberg», ha affermato la Harring. «In particolare, siamo stati informati di una produzione del 2010 di The Mikado al Muhlenberg Summer Music Theatre che presentava esempi di yellowface (attori truccati come giapponesi/cinesi – ndr) e una relativa galleria fotografica della performance che era sul nostro sito web. Abbiamo rimosso le immagini e fornito una nota a piè di pagina che spiega il motivo di questa azione».
The Mikado, scritto da William S. Gilbert e musicato da Arthur Sullivan in realtà non c’entra nulla con una visione caricaturale del mondo asiatico: si tratta di una satira della società e della politica britannica della seconda metà dell’Ottocento, ambientata in un mitologico Giappone per sfuggire ai fulmini della censura londinese.
Gli spettacoli teatrali annullati
Gli esempi di performance teatrali nelle università anglosassoni di cui viene chiesto l’annullamento per motivi relativi a razza e sesso sono legione. Una petizione degli studenti del John Jay College di New York che chiede la cancellazione del musical Emmett Till: A New American Opera, ha raccolto 13.500 firme. Emmett Till era un 15enne afroamericano che venne torturato e ucciso per il sospetto che avesse molestato (con un semplice fischio) una donna bianca. La colpa dell’opera consiste nel fatto che un ruolo importante nella narrazione ce l’ha un’attrice bianca che interpreta un’insegnante che, secondo la librettista Clare Coss, «rappresenta i bianchi che sono sensibili al razzismo ma che non parlano o non agiscono di fronte all’ingiustizia razziale».
Secondo 13.500 studenti newyorkesi questo è inaccettabile: «Denunciamo il racconto di questa vicenda storica da parte di una donna bianca e da un punto di vista bianco. È tempo che gli autori neri abbiano l’opportunità di espandere il canone operistico con una narrazione autentica dal nostro punto di vista».
Sartre «problematico» per come rappresenta i queer
Nella primavera del 2021 una dozzina di studenti del dipartimento teatrale della Western Washington University hanno promosso una petizione per mettere al bando niente meno che A porte chiuse di Jean-Paul Sartre, l’opera teatrale esistenzialista dove l’autore fa pronunciare la famosa frase «l’inferno sono gli altri». La petizione sostiene che la sceneggiatura è problematica perché propone stereotipi di genere riguardo alle donne e alle lesbiche, e mette un uomo in un ruolo di quasi leadership, che perpetua il patriarcato.
Riguardo alle avances omosessuali del personaggio Inez nei confronti di Estelle, la petizione tuona: «Lo stereotipo che circonda Inez è impreciso ed estremamente dannoso e perpetua ideali abusivi sulle persone che si identificano come lesbiche. Questo è il modo sbagliato di rappresentare i queer, molto doloroso per le persone Lgbtq+ nella comunità teatrale studentesca». Sartre non deve essere rappresentato anche a motivo degli approcci sessuali indesiderati rappresentati nel dramma: «Le opere teatrali con rappresentazioni di molestie sessuali o avances sessuali indesiderate sono dannose e possono riaccendere sentimenti di trauma all’interno del pubblico e degli studenti che stanno guardando/recitando il pezzo».
Il gesuita cancellato dallo stemma
Alla cancel culture appartengono anche le eliminazioni di stemmi, statue, loghi e simboli vari delle università americane. Il caso recente più clamoroso riguarda la cattolica Marquette University. Nel marzo scorso l’università ha presentato il suo nuovo stemma dopo che gruppi di attivisti nativi americani avevano fatto sapere consideravano il precedente stemma irrispettoso nei confronti degli indigeni. Realizzato poco dopo la fondazione dell’università nel 1881, raffigurava il gesuita padre Jacques Marquette in canoa con una guida nativa americana. Nel nuovo sigillo non appaiono né lui, né il suo compagno nativo americano, ma agli attivisti sta bene così.
L’immagine originale era basata su un dipinto del 1869 di Wilhelm Lamprecht intitolato “Padre Marquette e gli indiani”, che raffigurava Marquette che chiedeva informazioni ai nativi americani mentre stava per imbarcarsi sul fiume Mississippi. Marquette è in piedi nella sua canoa e indica il fiume mentre parla con un altro nativo americano. La sua guida nativa americana è seduta sulla canoa con le spalle allo spettatore. Nello stemma si vede solo Marquette col braccio teso in direzione del Mississippi, e il canoista di schiena. Gli attivisti hanno contestato il modo in cui il dipinto è stato ritagliato per lo stemma, poiché lascia l’impressione che Marquette stia dicendo alla guida dove andare. La soluzione alla controversia è consistita nel ridisegnare uno stemma dove ci sono simboli gesuiti e indiani, e non solo il Mississippi ma anche due suoi affluenti. Del gesuita esploratore che ha dato il nome all’università (oltre che a una città, a una contea, a un fiume e a un lago) non c’è più traccia.
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