
I cattolici vivono con il complesso dell’olio di palma

Se i messaggi pubblicitari riecheggiano e favoriscono quel che costituisce la percezione comune, e anzi sono efficaci proprio perché attingono o si inseriscono in convinzioni diffuse, un paio d’anni fa – il Covid-19 non era all’orizzonte – il principale nemico della nostra vita quotidiana pareva essere l’olio di palma. Non c’era spot su biscotto, merendina, prodotto da forno, che non recasse in bella evidenza l’espressione “senza olio di palma”, quasi più importante dell’indicazione delle caratteristiche in positivo del prodotto stesso: “senza olio di palma” è diventato un passaporto alimentare, una licenza di mangiare, la tranquillità nell’acquistare al supermercato, pur se fino a non molto tempo prima nessuno aveva dubbi su di esso, che con farina e zuccheri era l’ingrediente base di creme, dolci e cibarie varie. A torto o a ragione, l’olio di palma è stato chiamato in giudizio per rispondere dei reati di colesterolemia, ipertrigliceridemia, rischi cardiovascolari, e perfino per favoreggiamento del cancro: per questo è stato esiliato senza appello e senza prospettiva di ritorno.
Non pochi cattolici vivono col “complesso dell’olio di palma”. A loro carico restano intatte colpe storiche tramandate di generazione in generazione, dalla responsabilità per i “secoli bui” del Medioevo a Galileo, dalla caccia alle streghe al colonialismo, dall’avido temporalismo all’intralcio a ogni tipo di progresso. Non c’è ricerca storica, anche la più scientifica e aconfessionale, che scardini questi topos: al punto che, invece che contrastarli, il cattolico “senza olio di palma” preferisce ammettere gli addebiti, come nelle confessioni estorte per evitare la tortura. Al punto che, per fare un esempio fra i tanti, in non poche delle scuole paritarie ancora sopravviventi, la storia, la filosofia, l’italiano, la biologia, sono impartite con ingredienti identici a quelli in uso nei supermarket dell’istruzione di Stato: sì che qualcuno legittimamente si chiede perché spendere di più per mandare il figlio in luoghi di formazione di ispirazione cristiana nei quali il cosiddetto “eroe dei due mondi” continua a essere esaltato, e il Papa da lui definito «un metro cubo di letame» continua a essere umiliato.
Ma non è questione solo di passato. Il cattolico “senza olio di palma” evita accuratamente quel che caratterizza, identifica, rende riconoscibili: quando, come è accaduto qualche settimana fa – e andando sempre per esempi –, alcune testate giornalistiche hanno preso pesantemente di mira il Manuale di bioetica di Elio Sgreccia, uno dei cardini della riflessione scientifica cristiana, all’avanguardia nel porre a confronto antropologia e nuove tecniche che intervengono alle fonti della vita, e hanno attaccato nominativamente chi lo adopera come testo di insegnamento, il cattolico “senza olio di palma” ha fatto finta di nulla, e anzi per non correre rischi ha preso le distanze da ciò che, in quanto aggredito, va obbligatoriamente “aggiornato”, rectius ripudiato.
Segni di forza e speranza
Ma il “complesso dell’olio di palma” si dispiega al meglio da un anno in qua: il Covid-19 lo ha cronicizzato e diffuso. Su un mondo che scandiva il tempo fra brunch e apericena si è scatenata una tragedia che ha messo di fronte alla morte, ha evocato interrogativi cruciali, ha fatto e fa perdere a tanti l’equilibrio mentale, rischia di disperare per il futuro, indebolisce il fisico e lo spirito. In altri secoli le pandemie erano accompagnate dalla forte predicazione dell’Unico che dà forza, vita e speranza: si rileggano le pagine di Manzoni sulla peste a Milano. Non sono mancati neanche stavolta: il Santo Rosario andato in diretta su Tv2000 il giorno di san Giuseppe, poco dopo l’inizio del lockdown, la preghiera solitaria del Papa in piazza San Pietro il 27 marzo, sotto un cielo plumbeo, l’esposizione in prima linea di tanti sacerdoti, che hanno pagato con la vita la scelta di non far mancare i sacramenti.
Il seguito straordinario di questi gesti – 4,5 milioni di ascolti per la “semplice” recita del Rosario, 8,6 milioni collegati per ricevere la benedizione il 27 marzo – ha rimarcato quanta fame vi era del Pane vero, il solo che soddisfa; e quanto abbia lasciato insoddisfatti negarlo nella quotidianità.
Quando nell’anno 455 Roma venne invasa e messa a ferro e fuoco dai Vandali, papa Leone Magno aprì le porte delle tre principali basiliche – San Pietro, San Paolo e San Giovanni in Laterano –, e vi fece rifugiare larga parte della popolazione durante il saccheggio, finché convinse Genserico a risparmiare la vita dei romani.
Quando il coronavirus si è abbattuto sull’Orbe e sull’Urbe, le chiese sono rimaste chiuse, e ai fedeli è stato detto che per tv andava bene uguale. E invece quello era il momento in cui predicare a gran voce che salvezza e salute non sono in antitesi, che entrambe passano da Cristo, che solo in Cristo si trova la forza per superare la rassegnazione e guardare al futuro. È passato il messaggio che funziona pure in streaming, che la sanificazione val più della santificazione, che i decreti di Speranza (ministro) sono più cogenti della speranza fondata sulla Carne e sul Sangue del Verbo. E ancora adesso, andando a Messa in chiese mediamente piene della metà di fedeli di un anno fa, vi è più cura nel garantire il gel disinfettante che di un prete che confessi.
L’anima del mondo
Non c’è mai nulla di definitivo. Nel magistero dei Pontefici vi è che la Chiesa è convinta della non definitività della Storia e che, come ricordava con passione Pio XII nel Radiomessaggio del 10 febbraio 1952 ai fedeli di Roma, «è tutto un mondo, che occorre rifare dalle fondamenta, che bisogna trasformare da selvatico in umano, da umano in divino, vale a dire secondo il cuore di Dio». Lo ha spiegato il cardinale Gualtiero Bassetti nel toccante messaggio inviata alla sua Diocesi dal letto cui era costretto dal virus: «L’Eucarestia, soprattutto in questo periodo così difficile, non può essere lasciata ai margini delle nostre esistenze ma dev’essere rimessa, con ancora più forza, al centro della vita dei cristiani». Perché essa «è l’anima del mondo ed è il fulcro in cui converge tutto l’universo, (…) pro mundi salute, ovvero per la salvezza del mondo, e pro mundi vita, per la vita del mondo».
Dissolvere l’incubo di una rappresentazione da teatro dell’assurdo, che vede in tanti fermi e rassegnati, è possibile se diamo senso a ciò che sta sulla scena. Non è tempo per cristiani complessati.
Foto Ansa
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