
I BRUNETTA CI SONO (parola di madre e moglie)
«Ma voi lo sapete chi è Loris Brunetta?» aveva chiesto Giuliano Ferrara alla platea del Teatro Nuovo di Milano quel 6 novembre 2004, quando, con gli amici di Tempi, si era buttata qualche goccia di ragionevolezza sul piccolo rogo della strega cattolica Buttiglione. «Ma voi lo sapete chi è Loris Brunetta?». Non lo sapeva quasi nessuno. Eppure Loris Brunetta, presidente dei talassemici liguri e fondatore dell’omonima associazione per il diritto di cura del malato e alla vita sin dal concepimento, era andato solo qualche tempo prima a “Porta a Porta” a dire «Brunetta c’è, ed è contento di esserci». Perché a lui, come raccontò al Foglio il 23 ottobre 2004, faceva “incazzare” che la vicenda dei talassemici fosse strumentalizzata contro la legge 40. Disse al Foglio: «Io mi arrabbio con chi non vuole più ricordarsi di essere stato un embrione, con chi studia le cellule e non vede oltre, con chi ci considera mostri da non far nascere: sono un mostro, io?».
Loris Brunetta non è un mostro, e non è un mostro nemmeno il suo figlio adottivo, Paolo, talassemico anch’egli, di ventidue anni. Loris l’ha incontrato da piccolissimo, quando la madre, Luciana Raineri, che adesso è sua moglie, è arrivata al centro trasfusionale di Genova. Tempi ha chiesto alla signora Luciana di raccontare la loro storia.
Non è facile scrivere o parlare di emozioni, sentimenti, delusioni, paure a distanza di tanti anni. Per difendersi da certi episodi si cerca di rimuoverli dalla mente, ma è anche vero che ti hanno scavato solchi talmente profondi che basta cercare un po’ e tornano a galla.
Il mio incontro con la talassemia è avvenuto in un periodo già poco felice della mia vita. Ero appena uscita da un matrimonio durato cinque anni (finito in maniera repentina per volere dell’altra parte) proprio nel momento in cui ero in attesa di un figlio. Furono mesi difficilissimi quelli prima della nascita, dopo la quale ho ripescato dal fondo del cuore le forze residue per un vivere che mi era apparso ormai inutile. Affiorava così il dolore di non poter condividere i suoi piccoli e meravigliosi progressi con qualcuno, ma anche arrivava la gioia di una nuova presenza che mi dava lentamente un’intensa voglia di sfidare ancora la vita dimostrando, soprattutto a me stessa, che mi sapevo rialzare dalla brutta caduta.
La vita a volte si accanisce e così uno scopre che il contributo che pensa di aver già versato, e che già sembrava una sofferenza inumana, non è ancora sufficiente. La seconda prova si rivelò ancora più dura. Quando Paolo, il mio bimbo, arrivò al quindicesimo mese di vita, una banalissima influenza, dalla quale pareva non voler guarire, si rivelò un male più grave. Le analisi specifiche prescritte dal pediatra portarono alla diagnosi: thalassemia major. Cominciarono gli esami dai nomi difficili, il via vai dei medici, le anamnesi, i racconti di vicende familiari simili a quella che io stavo per affrontare. Intanto io scrutavo Paolo e pensavo: «Com’è bello, com’è paffutello» (sono questi i parametri di noi mamme). Come era potuto accadere?
SI PUO PARLARE DI FUTURO?
Il primo impatto con la talassemia è stato confusissimo. Ricoverati entrambi in un reparto con le patologie più disparate e senza un riferimento specifico, vivemmo come un trauma la prima trasfusione. Finché, un pomeriggio, apparvero due figure che, in quel momento, mi sembrarono angeliche. Una dottoressa e un’infermiera del Centro di microcitemia. Finalmente qualcuno che si rivolgeva a me, che mi spiegava e rispondeva alle mie ansie. Da quel giorno, cominciò la nostra frequentazione quotidiana al Centro dove il personale era sempre molto disponibile ai rapporti umani sia con i piccoli pazienti sia con i genitori. Ho subito cercato un rapporto con loro durante le lunghe ore in cui Paolo si sottoponeva a trasfusioni. Si potrebbe scrivere un libro sui vari modi di approccio e di rapporto con la malattia dei figli. Le ansie, le vergogne, i sensi di colpa, le apprensioni, l’eccessiva protezione. Un intrigo di sentimenti e di pareri che a volte mi sollevavano, a volte mi gettavano nella più cupa disperazione. Per fortuna c’erano i giovani pazienti. Per fortuna c’erano i talassemici adulti. Mi si è aperto un nuovo mondo. Riuscivo a vedere le cose con una prospettiva differente. Si poteva parlare di futuro? Di un’aspettativa di vita di qualità quasi “normale”? Venni a conoscenza dell’esistenza di un’associazione e su invito di alcuni giovani (a quei tempi ero giovane anch’io…) cominciai a frequentarla e a partecipare alle varie iniziative. Ricominciai ad avere uno scopo nella vita. Piangere sulla disgrazia non serviva né a me né tantomeno a mio figlio. Meglio attivarsi e cercare di rendersi utili.
In quel periodo Loris divenne una presenza costante. Al Centro portava informazioni sull’attività dell’associazione, teneva rapporti con ragazzi e genitori, dava consiglio e sostegno anche dal punto di vista pratico e burocratico. Incominciammo a vederci sempre più spesso. Loris era molto protettivo nei confronti di Paolo e così nacque una bella e solida amicizia. Cominciai ad uscire dall’isolamento che mi ero creata pensando, forse con quel senso di colpa che un po’ attanaglia quando ad un figlio è diagnosticata una malattia ereditaria, di dovermi dedicare solo a lui. Intanto Paolo cresceva e con Loris l’amicizia si trasformò lentamente in un sentimento più intenso e coinvolgente. Diventammo un trio compatto. Paolo cominciò a frequentare l’asilo e poi la scuola. Io mettevo sempre tutti al corrente della sua patologia che era vissuta senza problemi (a parte le assenze forzate per seguire la terapia trasfusionale). Paolo, con lo spirito di adattamento eccezionale che hanno i bambini, al Centro familiarizzava con tutti e, anche quando si iniziò la terapia chelante, che a me metteva tantissima ansia, la accettò senza grandi traumi. La trasformammo (nei limiti del possibile) in una sorta di gioco: un butterfly restava sempre incerottato ad una zampina del suo peluche preferito ed i tappini dei flaconcini di medicinale diventavano pedine per imparare l’alfabeto e divertirsi in giochini simili. Quando gli restavano gli ematomi dopo l’infusione accettava gli impacchi di crema perché, spalmandosela sulla pelle, creava dei disegni fantasiosi.
IL RITO SOTTO LA TENDA
Abbiamo imparato entrambi a convivere così, fra alti e bassi, con una malattia che, non conoscendola, all’inizio ci era sembrata tragica, ma che poi, vivendola, siamo riusciti ad affrontare con grinta. Certo, quando si partiva per le vacanze estive, ci accompagnava sempre un borsone di siringhe, aghi, flaconcini, fialette, cerotti. Ma questo non ci ha mai impedito di intraprendere viaggi bellissimi in mezza Europa, con sacchi a pelo e tenda al riparo della quale la sera, puntualissimi, si svolgeva il rito della terapia.
Ormai siamo da anni una famiglia, Paolo è cresciuto e l’Europa continua a girarla in modo autonomo. Frequenta l’Accademia di Belle arti perché è sempre stato un artista. È creativo, bizzarro, contestatore, irascibile ma anche dolce e sensibile. Apprezza l’arte e la natura in tutte le sue forme. Ama le letture impegnate, il cinema d’autore, trascorrere le nottate con gli amici a discutere del senso della vita, la “movida” notturna nei vicoli del centro storico… Fa anche serie considerazioni sulla sua convivenza con la malattia: a volte più rassegnate, a volte più “incazzose”. Non mi ha mai fatto sentire in colpa né ha mai detto che avrebbe preferito “non esserci”.
Con Loris ci siamo sposati. Ha avuto con me una pazienza e, soprattutto, una costanza infinite. La solidarietà fra di noi non è mai venuta meno. Ci compensiamo in modo equilibrato. Il suo aiuto ed il suo esempio nell’accettazione della malattia è stato fondamentale per me e per Paolo.
La talassemia da noi è proprio “di casa”. Qualcuno potrebbe obiettare sulla mia scelta, forse per me poteva bastare il figlio malato, ma l’amore, la stima, la fiducia, la comprensione, la complicità, vanno ben oltre il problema. Soprattutto quando questo “problema” è accettato e vissuto con equilibrio, vincendo il pessimismo ed imparando a vivere il bello della vita che si presenta, sapendo che c’è senz’altro un “meglio”, ma che c’è soprattutto un “peggio”.
di Luciana Raineri
(ha collaborato Massimiliano Lenzi)
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