
I bravi censurati, i mediocri idealizzati. Ecco la scuola che piace all’Unità
Molti non ti credono se spieghi che vi è chi sostiene che in matematica non bisogna “insegnare” gli algoritmi della divisione ma lasciare che lo studente se li reinventi da solo. Tutto in nome della delirante polemica contro l’insegnamento “trasmissivo” (che trova esilaranti manifestazioni come la proclamazione, in Spagna, del “diritto del bambino all’errore”, insomma a fare 2 + 2 = 5) che è il cascame di un Sessantotto che non muore mai. E poi ci si lamenta che un qualsiasi studente indiano o giapponese surclassa i suoi coetanei europei e anche americani in matematica: perché studia come da noi trent’anni fa.
Leggo in ritardo un articolo sull’Unità in cui si esalta la seguente prosa di Tullio De Mauro: «C’è una fase di maturazione lenta, fino a 18 o 20 anni, che è preceduta da numerose oscillazioni. Per questo motivo ritengo che il sistema ideale sia quello di tenere conto della media complessiva dei risultati. Puoi andare male in matematica e bene in storia o viceversa, l’importante è che ci sia una certa media minima». Chi parla così forse non ha mai visto uno studente in vita sua. Soprattutto, trovo intrigante il concetto di “media minima”, che non ha alcun senso, perché la media di un insieme di risultati è una sola, né massima né minima. Forse De Mauro definisce (malamente) così la media ottenuta scartando i risultati migliori e i peggiori, che è la procedura in voga tra i docimologi.
Addentrandomi un poco in questa bizzarra disciplina ho constatato l’importanza attribuita alla curva a campana di Gauss, che dicono essere l’immagine della ripartizione delle attitudini e qualità, per cui gli individui medi abbondano, mentre i geni e gli idioti sono rari. Se ne deduce l’esistenza di una corrispondenza tra la curva gaussiana e la rappresentazione dei risultati scolastici degli studenti, quando essi sono “normalmente” distribuiti rispetto all’attitudine e quando ricevono un’istruzione uniforme in termini di qualità e di tempo. Soltanto che: è del tutto arbitrario sostenere che le qualità si possano misurare in modo quantitativo fondato; la distribuzione gaussiana ha senso per grandi numeri e applicarla a insiemi ristretti di studenti è assurdo; la distribuzione “normale” delle attitudini è un concetto privo di senso e ancor più lo è quello di istruzione “uniforme”. Insomma, il tutto è un’emerita cialtronata, che se la raccontate a uno scienziato propriamente detto quello si mette a ridere e poi, preoccupato, vi chiede se esista qualcuno che prende sul serio idee simili. Purtroppo è così. Su insiemi di valutazioni, voti, test, risultati di quiz (previa verifica della loro conformità alla distribuzione gaussiana) si scartano i risultati migliori e i peggiori, senza tener conto che è proprio in queste zone che si annidano le situazioni più interessanti e indicative. Poi si fa la media sul resto, e si ottiene così la soglia di sufficienza. Il vero movente di queste teorie scombiccherate e improbabili è, in realtà, l’identificazione ideologica di un modello sociale di riferimento. Esso non è dato dai più bravi: a prendere questi come modello si darebbe fondamento alla scuola “selettiva”, “classista” e “repressiva”. No, il modello è dato da coloro che, con orrido termine, vengono chiamati i “normodotati”. È probabilmente in questo senso del tutto qualitativo che si parla di media minima: è la mediocrità. La scuola deve prefigurare una società appiattita sulla mediocrità. Insomma, una triste visione di stile sovietico, propugnata col linguaggio aggressivo del pedagogismo sessantottino.
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