Huffington Post in Italia? «Come una galera con schiavi ai remi»

Di Chiara Sirianni
14 Ottobre 2011
Arianna Huffington, presidente e fondatrice dell’Huffington Post, ha dichiarato di voler aprire un portale anche in Italia: «La vostra è una realtà molto interessante». Ecco la storia di come è nato uno dei siti più visitati al mondo e perché si è attirato critiche pesanti come quella del Los Angeles Times: «L'Huff Po? Immaginate una galera con schiavi ai remi e pirati al timone»

Uno strumento utile, per «dare voce alle migliaia di persone che vorrebbero averne di più» e una spinta ulteriore perché il giornalismo torni al suo ruolo di cane da guardia, «dato che molti sono diventati stenografi del potere», a fronte di una politica che «ha imparato da tempo a manipolare la stampa». È questa la definizione di internet secondo Arianna Huffington, presidente e fondatrice dell’Huffington Post, uno dei più grandi fenomeni editoriali degli ultimi anni. Attesissima a Milano, dove ha partecipato allo Iab Forum (evento di comunicazione interattiva e digitale) e dove, secondo indiscrezioni, avrebbe iniziato a prendere contatti (si mormora con il Fatto Quotidiano, ma non c’è ancora nulla di certo) per esportare la testata anche in Italia.«La vostra è una realtà molto interessante» ha dichiarato la Huffington, «con tante storie da raccontare. Basta solo pensare al vostro premier, Silvio Berlusconi».

La giornalista americana sta valutando la possibile apertura di ulteriori portali anche in Germania, Australia, Brasile e Giappone. Lo scorso maggio l’espansione del blog aveva riguardato anche il Canada. In Gran Bretagna è presente da luglio, e in Francia debutterà a metà novembre grazie a una partnership con il quotidiano Le Monde. «Internet dominerà sempre di più l’informazione, ma la carta stampata non scomparirà» ha commentato la fondatrice del blog più letto degli Stati Uniti. «Il futuro sarà un ibrido, una convergenza tra il meglio dei vecchi e dei nuovi media». Così come «non scompariranno le regole del giornalismo: la verifica, l’accuratezza, regole cui dovrà attenersi anche l’informazione online». E la stampa italiana, intanto, si attrezza in vista dello sbarco.

Ma si tratterà davvero di uno scossone così grande? Il blog nasce nel 2005, come aggregatore di notizie: spazia dalla politica all’intrattenimento, puntando molto sulla quantità di visite. Ad esempio, per la scelta dei titoli degli articoli, il sito utilizza un sistema per il quale ne vengono visualizzate due diverse versioni contemporaneamente, e dopo qualche minuto di sperimentazione, il software sceglie quello che ha attirato più visitatori: un metodo definito “diabolicamente brillante” dal Nieman Journalism Lab.

La Huffington, ex moglie di un senatore americano (repubblicano) e personaggio pubblico molto noto, fonda la testata assieme a due soci, a ridosso delle elezioni presidenziali di Obama. Un’azienda editoriale composta da un pugno di imprenditori, una ventina di giornalisti a comporre la redazione e centinaia di blogger che offrono gratuitamente il loro contributo per passione, in cambio di un po’ di visibilità. Sono loro lo zoccolo duro che rende la macchina concorrenziale. È un successo: ma maggio di quest’anno ha superato il numero di utenti unici del New York Times. «Sei anni per sconvolgere 100 anni di storia» ha commentato Brad Garlinghouse, uno dei contributor del network. Le grane sono arrivate qualche mese dopo, quando una delle più importanti aziende editoriali on-line del pianeta, America On Line, ha acquistato la piattaforma per 315 milioni di dollari.

Il genio della rete ha i vestito i panni della donna d’affari, e molti si sono interrogati sull’utilità dello sconvolgere la storia senza essere pagati. Subito dopo l’acquisizione la Huffington aveva inviato un’email ai suoi collaboratori: «I vostri post avranno un impatto ancora maggiore sulla conversazione globale e locale. Questo è l’unico vero cambiamento che noterete: più persone che leggono quello che scrivete». Loro l’hanno accusata di averli sfruttati e di aver guadagnato sulla loro pelle. Molte penne sono emigrate verso lidi migliori: in particolare Michael Arrington, il fondatore del seguitissimo blog tecnologico Techcrunch, anch’esso acquistato da Aol lo scorso anno. Le ragioni dello strappo sembrerebbero legate a conflitti d’interesse tra la testata e gli interessi economici del fondatore. L’acquisizione di Aol, se da una parte fa da propulsore verso l’internazionalizzazione, dall’altra parte rende difficile mantenere il tono radical chic e scanzonato a cui i lettori si erano abituati. E la testata non è diventata molto diversa da quella “stampa manipolata dalla politica” contro cui la Huffington si è scagliata.

In America i blogger hanno chiesto 105 milioni di dollari di risarcimento, e anche una serie di giornalisti professionisti hanno parlato di etica perduta: «Per farvi un’idea del modello di business dell’Huff Po – ha scritto Tim Rutten del Los Angeles Timesimmaginate una galera con schiavi ai remi e pirati al timone». Chissà se in Italia i blogger verranno pagati, o se «l’età d’oro del giornalismo» coincide per la Huffington con la sua replica a chi la taccia di cinismo: «Non si tratta di vero lavoro, nessuno li obbliga a scrivere. È il principio di internet».

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